Di Francesco Mario Angoli
Per non dare il mio pur modestissimo contributo al fallimento dell'operazione (del resto inevitabile tanto più che a scoraggiare la partecipazione della gente ci ha pensato anche il maltempo) ho lasciato trascorrere la giornata celebrativa, perché, pur dissentendo, non condivido nemmeno l'iniziativa della maestrina buonista di turno, che ha reso nota per tempo la non partecipazione sua e dei suoi allievi per non offendere, col tricolore, la sensibilità dei bambini immigrati.
Detto questo, mi riesce ancora più difficile condividere sia la scelta del governo di celebrare con particolare solennità il 90° anniversario della vittoria nella guerra '15-'18 nel dichiarato intento di fare di quella guerra e di quella vittoria uno dei motivi fondanti dell'unità e dell'identità nazionale, sia l'entusiasmo col quale alcuni hanno condiviso l'iniziativa.
La retorica lo ha definito guerra di popolo, ma in realtà quel sanguinoso conflitto fu soltanto, soprattutto in Italia e in Francia, guerra di generali macellai e a renderla “popolare” non bastano certo le manifestazioni interventiste di un pugno di studenti dell'alta e media borghesia o le esaltazioni para-artistiche e super-omistiche di D'Annunzio, Papini e Marinetti.
Le rarissime volte che il popolo poté fare sentire la sua voce questa fu di dissenso, come nel Natale del 1914, quando sul fronte occidentale tedeschi e francesi uscirono dalle trincee per corrersi incontro a scambiarsi un abbraccio da fratelli, o, più avanti, sull'Ortigara, quando, approfittando di una forte nevicata, alpini italiani e cacciatori austriaci misero da parte il gioco odioso della guerra a favore di allegri scherzi da buoni compagni.
Quella guerra rimane per sempre - e non può essere altrimenti - “l'inutile strage” dell'accorato appello di Papa Benedetto XV, del resto sbagliato per difetto, perché la strage non si accontentò di essere inutile, ma risultò rovinosa, aprendo la strada alle mostruosità del nazismo e del comunismo e alle nuovi stragi del conflitto 1939-1945, il secondo e conclusivo tempo della guerra civile europea.
Difficile credere, anche a volere accettare il punto di vista del più acceso nazionalista, che l'unione all'Italia di Trento e Trieste, che furono poi - per usare il linguaggio della retorica – l'unico frutto della vittoria, rappresenti un compenso sufficiente di tante rovine, di tanto dolore, di tanto sangue, di tanta gioventù che lasciò vita e speranze fra i reticolati e le trincee.
Ancora oggi, rivedendo i primi reportages filmici di quei combattimenti con le piccole figure in grigioverde che sbucano dalle trincee, si buttano a terra fra le buche degli obici e i grovigli di filo spinato, si rialzano per riprendere la corsa finché non vengono definitivamente abbattute e restano immobili, fredde parti di un suolo altrettanto martoriato, è difficile trattenere un moto di infinita pietà, ma anche di rancore per chi volle quella strage: tante giovani vite spezzate, tante speranze tramontate, tante famiglie segnate da irrimediabili scomparse e, costrette a convincersi per sopravvivere, per farsi una ragione, che la perdita subita non fosse stata inutile, un vano sacrificio sull'altare del Leviatano.
Se poi il popolo italiano si sentì unito fu solo per le immense ondate di dolore che in quegli anni, senza trascurare il più piccolo villaggio, il più remoto angolo di campagna, spazzarono ripetutamente l'intera penisola dalle Alpi alla Sicilia. Ed è solo per quei morti (voglio ricordarne uno, il mio quasi omonimo Mario Agnoli, un fantaccino veneto che - come ho scoperto per caso - dorme l'eterno sonno sotto la bianca scalinata di Redipuglia), per quel dolore che segnò irrimediabilmente altri milioni di persone, che oggi vale la pena di ricordare, ma a titolo di monito non di esaltazione di una vittoria del resto definita “tradita” dalla stessa retorica nazionalista, la fine (in realtà si trattò solo di un breve intervallo) della inutile strage.
Fonte:Da La Voce di Romagna del 5 novembre 2008
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