Di Maurizio Blondet
Domata l’iper-inflazione, riagganciato il marco all’oro, l’economia tedesca conobbe una rinascita immediata.
Motore del miracolo fu la grande finanza, lanciata in un esperimento che non si può che chiamare la prima globalizzazione.
L’inflazione aveva annichilito i risparmi e vaporizzato i fondi per il funzionamento delle imprese tedesche.
Gli Stati Uniti, vincitori della guerra e grandi creditori del mondo, traboccavano d’oro affluito dai Paesi debitori.
La montagna di lingotti che s’accumulavano a Fort Knox avrebbe avuto come normale conseguenza - effetto collaterale di tanta benedizione - una moltiplicazione di dollari-carta, con conseguente inflazione.
I prezzi americani sarebbero cresciuti, col risultato di rendere meno competitive le merci statunitensi; gli USA sarebbero stati inondati da merci estere a miglior prezzo, provocando la recessione interna - inevitabile conseguenza dopo la superproduzione bellica.
La Federal Reserve e i banchieri americani impedirono tutto ciò, con misure artificiose; le stesse cui è ricorso nei nostri anni ‘90 Alan Greenspan, il capo della Banca Centrale sotto Clinton e Bush.
Tenere bassi i tassi d’interesse, fornire denaro facile all’economia interna.
Il capitale americano, poco remunerato in patria, cercò nel mondo retribuzioni più alte.
Le trovò in Germania.
Nel 1925, quando il tasso di sconto delle Federal Reserve era del 3%, in Germania era del 10%; nel ‘26, il denaro che in America era pagato al 4 %, in Germania fruttava l’8 %.
Il doppio.
Come negli anni ‘90 i capitali globali sono accorsi verso le economie emergenti, le tigri asiatiche, la Cina, dal 1924 i capitali angloamericani fluirono verso la Germania, emergente dalle distruzioni della guerra con la sua impareggiabile manodopera (a basso costo), la sua tecnologia, le sue classi tecniche produttive.
Tanto più che quella manodopera costava poco.
I salari erano bassi, e i bassi salari stimolano gli investimenti industriali.
Come accade nel capitalismo globale oggi, anche allora la Germania forniva agli investitori esteri le garanzie del mercato e della democrazia.
Licenziato il Kaiser, sradicato il prussianesimo, a Berlino folleggiava, radical-chic, la repubblica parlamentare di Weimar.
Quel che produsse l’eccesso di capitale estero rovente, in forma di crediti a breve termine, ossia speculativi, lo ha raccontato nel 1938 Bruno Heilig, giornalista ebreo che sarebbe scampato poi ai campi di concentramento.
«Le industrie smantellarono le vecchie fabbriche e le rimpiazzarono con i più nuovi macchinari.
La Germania era avviata a diventare il Paese industriale più avanzato del mondo, superando
gli stessi Stati Uniti. La sete di manodopera risucchiò milioni di uomini nelle città; Berlino passò da due a 6 milioni e mezzo di abitanti. […] L’intero sistema ferroviario fu riorganizzato e rinnovato. A Berlino interi quartieri furono demoliti per allargare le strade. Alexanderplatz doveva diventare la più grande piazza del mondo, circondata da modernissimi grattacieli».
Com’è avvenuto in Giappone negli anni ‘80, e in Thailandia negli anni ‘90, l’abbondanza di capitale scatenò la febbre edilizia; e questa innescò un fantastico rincaro dei terreni.
«Il prezzo della terra crebbe del 700 % a Berlino e del 500 % ad Amburgo», dice Heilig: ciò significa che gli speculatori immobiliari videro raddoppiare o triplicare le loro fortune da un giorno all’altro, senza lavoro né fatica.
Faticavano i cittadini tedeschi, intenti a ricostruire il Paese, mentre per loro il costo della vita aumentava.
Gli affitti, durante la guerra, erano stati bloccati per legge.
La libera stampa di Weimar (pagata dagli speculatori) lanciò una campagna per il loro adeguamento sostenendo che era ingiusto, dati i valori in aumento degli immobili, che le case vecchie in locazione non condividessero la manna.
Una legge aumentò gli affìtti già bloccati del 125 %.
E il regalo, nota Heilig, beneficiò proprietari che l’inflazione aveva liberato dei tre quarti del peso dei loro debiti.
Tra questi privilegiati, divenne abitudine mantenere buoni rapporti con le amministrazioni comunali: l’indiscrezione in anteprima che il comune di Berlino stava per estendere la metropolitana ad un nuovo quartiere consentiva guadagni astronomici a chi comprava un pezzo di terra in quel quartiere.
La vendita di terreni al Comune in espansione era un’altra enorme occasione di profitti speculativi. Heilig ricorda con disgusto un proprietario (non ne fa il nome) che chiese 400 mila marchi al Comune di Berlino per il suo appezzamento.
Il Comune, ritenendo il prezzo eccessivo, fece appello ad una speciale commissione, costituita per questo genere di arbitrati.
Essa decretò che il terreno valeva, e dunque che il proprietario aveva diritto a, non già 400 mila, ma a un milione e 80 mila marchi.
«Lo scandalo consisteva in questo», racconta il giornalista: «che i membri della commissione erano compensati in percentuale al valore della transazione, e dunque avevano un interesse personale al massimo rialzo del prezzo».
Non mancarono immense e scandalose privatizzazioni del genere preferito, anche oggi, dalla finanza globale.
La città di Berlino spese milioni di marchi per rimodernare il suo porto fluviale sulla Sprea (il secondo della Germania), attrezzandolo completamente con enormi gru e vastissimi magazzini. Una volta terminata la costosa opera, l’alto funzionario responsabile del progetto, tale Schuning, dichiarò che la mano pubblica non sarebbe stata capace di gestire con efficienza e profitto il porto (quante volte non abbiamo sentito lo stesso discorso?), e che conveniva quindi cederlo in gestione a imprenditori privati, più efficienti.
Detto fatto.
Due imprese, l’ebraica Schenker e la Busch, una ditta di materiale ferroviario, costituirono un consorzio per la gestione del porto.
Furono le sole ad offrirsi, non ci fu un’asta.
L’area del bacino era un milione di metri quadri; il puro affitto del nudo terreno era valutato a un marco a metro quadro, dunque a un milione di marchi.
Ma il consorzio Schenker & Busch ottenne l’affìtto dell’area - superbamente attrezzata a spese del Comune con gru e magazzini - a 369 mila marchi.
Unico pagamento, per cinquant’anni di affìtto.
Non bastò: i gestori, capitalisti di un genere che ben conosciamo, presero a lamentare che il rischio d’impresa era per loro insostenibile.
Il Comune di Berlino elargì loro, come capitale operativo, un prestito di 5 milioni di marchi.
Occorrerà dire che Herr Schuning, che aveva fatto fare al Comune un così cattivo affare, lasciò subito dopo l’impiego pubblico, per essere assunto dal consorzio privato?
Intanto i lavoratori berlinesi già aggravati dal rincaro degli affitti dovevano pagare un tributo a quel consorzio privato per ogni pezzo di pane che mangiavano.
Il grande boom durò sette anni.
A credito.
Fino a sbattere contro quel muro della natura che già Ricardo aveva previsto come il fatale ostacolo contro cui si sarebbe autodistrutto il liberismo, il capitalismo finanziario senza regole.
Le imprese prosperavano.
Ma al prezzo di un aumento astronomico delle loro spese incomprimibili: il servizio del debito per l’acquisto dei terreni, degli impianti, degli immobili.
Come sempre, i capitalisti agirono sulla spesa che essi ritengono a cuor leggero variabile: i salari. «Ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo ì salari e licenziando lavoratori», dice Heilig; e poiché «i bassi salari stimolano gli investimenti industriali», il risparmio sulla manodopera fu compensato con l’acquisto di altri macchinari più efficienti.
Era la corsa alla più alta produttività, alla razionalizzazione esaltata dalla finanza globale: produrre più merci con sempre meno lavoratori.
Industria ad alta intensità di capitale.
«Modernizzare, modernizzare ad ogni costo, era la sola idea che gli uomini d’affari sapevano concepire», dice Heilig.
E’ la stessa ricetta che viene raccomandata o imposta in nome dell’efficienza del capitalismo.
Heilig dice invece: «La Germania era intossicata».
Che cosa accade infatti quando si retribuisce troppo il capitale a scapito del lavoro?
Finisce che le merci sempre più abbondanti non trovano acquirenti, perché i consumatori - i lavoratori - hanno perso potere d’acquisto.
Gli imprenditori corsero ai ripari, secondo le lezioni di liberismo appena apprese.
Nel 1931, nel tentativo disperato di sostenere i prezzi, ridussero la produzione di merci.
Con ciò però, dice il giornalista, «gli interessi (sul debito), le tasse, gli ammortamenti e gli affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profìtti calanti, fino a divorarli».
La soluzione liberista?
«Gli operai furono licenziati in massa».
Ma, naturalmente, «i datori di lavoro ne ottennero ben poco sollievo. Per ogni lavoratore licenziato, era anche un consumatore che spariva».
La benedizione del capitale facile aveva prodotto questo esito: sovrapproduzione, disoccupazione, crisi.
Heilig ragiona su quei «costi incomprimibili» che finirono per divorare i profitti.
In ultima analisi, essi consistono nell’enorme rialzo degli immobili e terreni che precedette ogni futuro profitto possibile.
Alla fine, «tutto andò ai proprietari immobiliari. L’intera Germania aveva lavorato ‘per loro’ in tutti gli anni del boom».
Più precisamente diciamo: per restituire gli interessi e i ratei dei capitali presi a prestito, e finiti nella speculazione meno produttiva, la Germania si svenò.
Nel corso del 1931 parecchi industriali tedeschi non furono più in grado di pagare i debiti: «I cosiddetti costi incomprimibili erano diventati insopportabili e cessarono di essere pagati».
Con l’insolvenza dei debitori, cominciarono a fallire le banche.
Il cancelliere Bruning, allievo modello del liberismo pro-capitalista, spese miliardi di marchi (denaro dei contribuenti) per salvarle.
Poi accordò amplissimi sussidi alle imprese in difficoltà.
Come si vede, anche allora il liberismo non si applica quando si profila la rovina del capitale e dei capitalisti: allora torna di moda l’intervento pubblico, la mano visibile dello Stato.
Bruning lanciò quella che chiamò politica «anti-deflazionista»: la quale consisteva nel somministrare più forti dosi del tossico che aveva condotto alla rovina.
«Decretò una riduzione generale dei salari, che furono tagliati del 15 %».
Era convinto che, ridotto il potere d’acquisto dei lavoratori, questo avrebbe indotto una riduzione successiva dei prezzi (il prezzo umano, la riduzione alla fame della classe operaia, non parve indegno d’essere pagato).
«Ma i prezzi erano determinati da fattori ben diversi che dai salari», dice Heilig: come abbiamo visto, dalle spese incomprimibili del servizio del debito contratto per comprare suoli sopravvalutati. Era lì, se mai, che si sarebbe dovuto agire.
Ma era troppo tardi.
«Sette milioni di salariati, un terzo della forza produttiva, era disoccupato; la classe media spazzata via: questa la situazione a un anno dall’apice della prosperità» indotta dai capitali esteri. In quell’anno, il numero dei deputati nazisti eletti al Reichstag passò da otto a 107».
Nel gennaio 1933, Hitler fu nominato cancelliere.
«Infiniti studi, libri e articoli sono stati scritti per spiegare come mai la Germania ha preso la strada della barbarie», conclude Heilig: «C’era una volta un Paese con una bella costituzione democratica, fondata sugli ideali della libertà e dell’autogoverno»; un Paese che «aveva eletto alla Assemblea Nazionale di Weimar personalità che offrivano le migliori garanzie di estirpare le odiate idee del prussianesimo. Poi dei mascalzoni, dei pazzi, dei viziosi sono apparsi sulla scena della storia, e la democrazia è stata gettata via, la libertà è diventata spazzatura. [...] Si danno
di questo fenomeno molte spiegazioni, dalle politiche illiberali [...] all’innato militarismo dei tedeschi, che si suppone aspettassero solo una sua diversa reincarnazione per abbracciarlo focosamente. Idee varie: che evitano di dar conto dei meccanismi sociali che distrussero la Germania dall’interno».
Fonte: Effedieffe
Domata l’iper-inflazione, riagganciato il marco all’oro, l’economia tedesca conobbe una rinascita immediata.
Motore del miracolo fu la grande finanza, lanciata in un esperimento che non si può che chiamare la prima globalizzazione.
L’inflazione aveva annichilito i risparmi e vaporizzato i fondi per il funzionamento delle imprese tedesche.
Gli Stati Uniti, vincitori della guerra e grandi creditori del mondo, traboccavano d’oro affluito dai Paesi debitori.
La montagna di lingotti che s’accumulavano a Fort Knox avrebbe avuto come normale conseguenza - effetto collaterale di tanta benedizione - una moltiplicazione di dollari-carta, con conseguente inflazione.
I prezzi americani sarebbero cresciuti, col risultato di rendere meno competitive le merci statunitensi; gli USA sarebbero stati inondati da merci estere a miglior prezzo, provocando la recessione interna - inevitabile conseguenza dopo la superproduzione bellica.
La Federal Reserve e i banchieri americani impedirono tutto ciò, con misure artificiose; le stesse cui è ricorso nei nostri anni ‘90 Alan Greenspan, il capo della Banca Centrale sotto Clinton e Bush.
Tenere bassi i tassi d’interesse, fornire denaro facile all’economia interna.
Il capitale americano, poco remunerato in patria, cercò nel mondo retribuzioni più alte.
Le trovò in Germania.
Nel 1925, quando il tasso di sconto delle Federal Reserve era del 3%, in Germania era del 10%; nel ‘26, il denaro che in America era pagato al 4 %, in Germania fruttava l’8 %.
Il doppio.
Come negli anni ‘90 i capitali globali sono accorsi verso le economie emergenti, le tigri asiatiche, la Cina, dal 1924 i capitali angloamericani fluirono verso la Germania, emergente dalle distruzioni della guerra con la sua impareggiabile manodopera (a basso costo), la sua tecnologia, le sue classi tecniche produttive.
Tanto più che quella manodopera costava poco.
I salari erano bassi, e i bassi salari stimolano gli investimenti industriali.
Come accade nel capitalismo globale oggi, anche allora la Germania forniva agli investitori esteri le garanzie del mercato e della democrazia.
Licenziato il Kaiser, sradicato il prussianesimo, a Berlino folleggiava, radical-chic, la repubblica parlamentare di Weimar.
Quel che produsse l’eccesso di capitale estero rovente, in forma di crediti a breve termine, ossia speculativi, lo ha raccontato nel 1938 Bruno Heilig, giornalista ebreo che sarebbe scampato poi ai campi di concentramento.
«Le industrie smantellarono le vecchie fabbriche e le rimpiazzarono con i più nuovi macchinari.
La Germania era avviata a diventare il Paese industriale più avanzato del mondo, superando
gli stessi Stati Uniti. La sete di manodopera risucchiò milioni di uomini nelle città; Berlino passò da due a 6 milioni e mezzo di abitanti. […] L’intero sistema ferroviario fu riorganizzato e rinnovato. A Berlino interi quartieri furono demoliti per allargare le strade. Alexanderplatz doveva diventare la più grande piazza del mondo, circondata da modernissimi grattacieli».
Com’è avvenuto in Giappone negli anni ‘80, e in Thailandia negli anni ‘90, l’abbondanza di capitale scatenò la febbre edilizia; e questa innescò un fantastico rincaro dei terreni.
«Il prezzo della terra crebbe del 700 % a Berlino e del 500 % ad Amburgo», dice Heilig: ciò significa che gli speculatori immobiliari videro raddoppiare o triplicare le loro fortune da un giorno all’altro, senza lavoro né fatica.
Faticavano i cittadini tedeschi, intenti a ricostruire il Paese, mentre per loro il costo della vita aumentava.
Gli affitti, durante la guerra, erano stati bloccati per legge.
La libera stampa di Weimar (pagata dagli speculatori) lanciò una campagna per il loro adeguamento sostenendo che era ingiusto, dati i valori in aumento degli immobili, che le case vecchie in locazione non condividessero la manna.
Una legge aumentò gli affìtti già bloccati del 125 %.
E il regalo, nota Heilig, beneficiò proprietari che l’inflazione aveva liberato dei tre quarti del peso dei loro debiti.
Tra questi privilegiati, divenne abitudine mantenere buoni rapporti con le amministrazioni comunali: l’indiscrezione in anteprima che il comune di Berlino stava per estendere la metropolitana ad un nuovo quartiere consentiva guadagni astronomici a chi comprava un pezzo di terra in quel quartiere.
La vendita di terreni al Comune in espansione era un’altra enorme occasione di profitti speculativi. Heilig ricorda con disgusto un proprietario (non ne fa il nome) che chiese 400 mila marchi al Comune di Berlino per il suo appezzamento.
Il Comune, ritenendo il prezzo eccessivo, fece appello ad una speciale commissione, costituita per questo genere di arbitrati.
Essa decretò che il terreno valeva, e dunque che il proprietario aveva diritto a, non già 400 mila, ma a un milione e 80 mila marchi.
«Lo scandalo consisteva in questo», racconta il giornalista: «che i membri della commissione erano compensati in percentuale al valore della transazione, e dunque avevano un interesse personale al massimo rialzo del prezzo».
Non mancarono immense e scandalose privatizzazioni del genere preferito, anche oggi, dalla finanza globale.
La città di Berlino spese milioni di marchi per rimodernare il suo porto fluviale sulla Sprea (il secondo della Germania), attrezzandolo completamente con enormi gru e vastissimi magazzini. Una volta terminata la costosa opera, l’alto funzionario responsabile del progetto, tale Schuning, dichiarò che la mano pubblica non sarebbe stata capace di gestire con efficienza e profitto il porto (quante volte non abbiamo sentito lo stesso discorso?), e che conveniva quindi cederlo in gestione a imprenditori privati, più efficienti.
Detto fatto.
Due imprese, l’ebraica Schenker e la Busch, una ditta di materiale ferroviario, costituirono un consorzio per la gestione del porto.
Furono le sole ad offrirsi, non ci fu un’asta.
L’area del bacino era un milione di metri quadri; il puro affitto del nudo terreno era valutato a un marco a metro quadro, dunque a un milione di marchi.
Ma il consorzio Schenker & Busch ottenne l’affìtto dell’area - superbamente attrezzata a spese del Comune con gru e magazzini - a 369 mila marchi.
Unico pagamento, per cinquant’anni di affìtto.
Non bastò: i gestori, capitalisti di un genere che ben conosciamo, presero a lamentare che il rischio d’impresa era per loro insostenibile.
Il Comune di Berlino elargì loro, come capitale operativo, un prestito di 5 milioni di marchi.
Occorrerà dire che Herr Schuning, che aveva fatto fare al Comune un così cattivo affare, lasciò subito dopo l’impiego pubblico, per essere assunto dal consorzio privato?
Intanto i lavoratori berlinesi già aggravati dal rincaro degli affitti dovevano pagare un tributo a quel consorzio privato per ogni pezzo di pane che mangiavano.
Il grande boom durò sette anni.
A credito.
Fino a sbattere contro quel muro della natura che già Ricardo aveva previsto come il fatale ostacolo contro cui si sarebbe autodistrutto il liberismo, il capitalismo finanziario senza regole.
Le imprese prosperavano.
Ma al prezzo di un aumento astronomico delle loro spese incomprimibili: il servizio del debito per l’acquisto dei terreni, degli impianti, degli immobili.
Come sempre, i capitalisti agirono sulla spesa che essi ritengono a cuor leggero variabile: i salari. «Ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo ì salari e licenziando lavoratori», dice Heilig; e poiché «i bassi salari stimolano gli investimenti industriali», il risparmio sulla manodopera fu compensato con l’acquisto di altri macchinari più efficienti.
Era la corsa alla più alta produttività, alla razionalizzazione esaltata dalla finanza globale: produrre più merci con sempre meno lavoratori.
Industria ad alta intensità di capitale.
«Modernizzare, modernizzare ad ogni costo, era la sola idea che gli uomini d’affari sapevano concepire», dice Heilig.
E’ la stessa ricetta che viene raccomandata o imposta in nome dell’efficienza del capitalismo.
Heilig dice invece: «La Germania era intossicata».
Che cosa accade infatti quando si retribuisce troppo il capitale a scapito del lavoro?
Finisce che le merci sempre più abbondanti non trovano acquirenti, perché i consumatori - i lavoratori - hanno perso potere d’acquisto.
Gli imprenditori corsero ai ripari, secondo le lezioni di liberismo appena apprese.
Nel 1931, nel tentativo disperato di sostenere i prezzi, ridussero la produzione di merci.
Con ciò però, dice il giornalista, «gli interessi (sul debito), le tasse, gli ammortamenti e gli affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profìtti calanti, fino a divorarli».
La soluzione liberista?
«Gli operai furono licenziati in massa».
Ma, naturalmente, «i datori di lavoro ne ottennero ben poco sollievo. Per ogni lavoratore licenziato, era anche un consumatore che spariva».
La benedizione del capitale facile aveva prodotto questo esito: sovrapproduzione, disoccupazione, crisi.
Heilig ragiona su quei «costi incomprimibili» che finirono per divorare i profitti.
In ultima analisi, essi consistono nell’enorme rialzo degli immobili e terreni che precedette ogni futuro profitto possibile.
Alla fine, «tutto andò ai proprietari immobiliari. L’intera Germania aveva lavorato ‘per loro’ in tutti gli anni del boom».
Più precisamente diciamo: per restituire gli interessi e i ratei dei capitali presi a prestito, e finiti nella speculazione meno produttiva, la Germania si svenò.
Nel corso del 1931 parecchi industriali tedeschi non furono più in grado di pagare i debiti: «I cosiddetti costi incomprimibili erano diventati insopportabili e cessarono di essere pagati».
Con l’insolvenza dei debitori, cominciarono a fallire le banche.
Il cancelliere Bruning, allievo modello del liberismo pro-capitalista, spese miliardi di marchi (denaro dei contribuenti) per salvarle.
Poi accordò amplissimi sussidi alle imprese in difficoltà.
Come si vede, anche allora il liberismo non si applica quando si profila la rovina del capitale e dei capitalisti: allora torna di moda l’intervento pubblico, la mano visibile dello Stato.
Bruning lanciò quella che chiamò politica «anti-deflazionista»: la quale consisteva nel somministrare più forti dosi del tossico che aveva condotto alla rovina.
«Decretò una riduzione generale dei salari, che furono tagliati del 15 %».
Era convinto che, ridotto il potere d’acquisto dei lavoratori, questo avrebbe indotto una riduzione successiva dei prezzi (il prezzo umano, la riduzione alla fame della classe operaia, non parve indegno d’essere pagato).
«Ma i prezzi erano determinati da fattori ben diversi che dai salari», dice Heilig: come abbiamo visto, dalle spese incomprimibili del servizio del debito contratto per comprare suoli sopravvalutati. Era lì, se mai, che si sarebbe dovuto agire.
Ma era troppo tardi.
«Sette milioni di salariati, un terzo della forza produttiva, era disoccupato; la classe media spazzata via: questa la situazione a un anno dall’apice della prosperità» indotta dai capitali esteri. In quell’anno, il numero dei deputati nazisti eletti al Reichstag passò da otto a 107».
Nel gennaio 1933, Hitler fu nominato cancelliere.
«Infiniti studi, libri e articoli sono stati scritti per spiegare come mai la Germania ha preso la strada della barbarie», conclude Heilig: «C’era una volta un Paese con una bella costituzione democratica, fondata sugli ideali della libertà e dell’autogoverno»; un Paese che «aveva eletto alla Assemblea Nazionale di Weimar personalità che offrivano le migliori garanzie di estirpare le odiate idee del prussianesimo. Poi dei mascalzoni, dei pazzi, dei viziosi sono apparsi sulla scena della storia, e la democrazia è stata gettata via, la libertà è diventata spazzatura. [...] Si danno
di questo fenomeno molte spiegazioni, dalle politiche illiberali [...] all’innato militarismo dei tedeschi, che si suppone aspettassero solo una sua diversa reincarnazione per abbracciarlo focosamente. Idee varie: che evitano di dar conto dei meccanismi sociali che distrussero la Germania dall’interno».
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