Di Emilio Fabio Torsello
«Quando Bernardo Provenzano è stato arrestato in un casolare nel corleonese, gli agenti sembrava avessero catturato un pastore invece che il numero Uno della mafia siciliana».
Con queste parole Francesco La Licata, giornalista de La Stampa, ha iniziato il suo incontro con gli studenti del Master in Giornalismo dell'università di Roma - Tor Vergata.
Ed è stata una conversazione a 360 gradi, che ha ripercorso negli anni tutta la storia dell'antimafia siciliana, chiarendo come spesso in prima fila nella lotta a Cosa Nostra ci siano stati non solo i giudici e i magistrati ma anche e soprattutto i giornalisti. Solo in Sicilia ne sono stati uccisi 8, ma si arriva a 9 con Giancarlo Siani, trucidato dalla Camorra a poco più di ventisei anni.
Quando ancora la mafia sparava, Francesco La Licata scriveva per L'Ora di Palermo, considerato un quotidiano per certi aspetti più libero rispetto al Giornale di Sicilia, influenzato dall'establishment e dai potentati locali. Era il 1970 e della mafia l'informazione ufficiale preferiva non parlare. Erano gli anni della prima Commissione Parlamentare Antimafia, costituita tra il 1966 e il 1967. Erano gli anni di Mauro De Mauro, un giornalista che indagando sulla morte del presidente dell'Eni, Enrico Mattei, venne fatto sparire da Cosa Nostra. Era ad un passo - si dice - dalla pubblicazione di verità scottanti e scomode.
E proprio della scomparsa del giornalista siciliano si è occupato Francesco La Licata, amico tra gli altri del giudice Giovanni Falcone.
«De Mauro sapeva troppo - ha spiegato La Licata - e Cosa Nostra volle interrogarlo».
Ma la storia della lotta alla mafia ha spesso coinciso con la cronaca nera e con la penna e gli scatti fotografici di quanti erano chiamati a scriverne.
«L'Ora è stata una scuola giornalistica ottima - racconta La Licata - ci si alzava prima dell'alba e dalle 5 del mattino si girava per gli ospedali per sapere se fosse stato commesso qualche omicidio o fatto di cronaca rilevante.
Verso le 7.30 si arrivava in redazione e si mettevano sul tavolo del caposervizio le proposte. Alle 9 dovevi aver già fatto il pezzo, con tanto di fotografie: era un incubo». Ma gli anni Settanta a Palermo impongono scelte politiche e quindi professionali: «Nel 1970 a Palermo non potevi che essere comunista.
Dall'altro lato infatti c'era una realtà inaccettabile che nascondeva le notizie».
Eppure, quando L'Ora chiuse i battenti per mancanza di fondi, Francesco La Licata si ritrovò a lavorare proprio al Giornale di Sicilia.
«Dall'omicidio di Dalla Chiesa, nel 1983, fino al 1989 quando me ne andai - racconta - fare informazione divenne veramente difficile. Gli argomenti scottanti venivano affidati ad altri, a giornalisti che davano ‘garanzie' rispetto a chi si era da sempre occupato dei temi di mafia». Ed oggi la situazione sembra non essere cambiata di molto, «il rapporto tra giornalista e informazione si è evoluto a sfavore del primo che è divenuto ormai ‘embedded', un passacarte che pubblica gli atti giudiziari senza corredarli da alcun commento o informazione aggiuntiva».
Poco dopo il discorso è tornato alla situazione attuale della mafia e della lotta alla mafia. «Cosa Nostra continua ad alimentarsi attraverso il pizzo.
La filosofia dei boss è far pagare di meno ma far pagare tutti», in questo senso l'antimafia sta facendo passi in avanti ma non abbastanza.
Adesso in Sicilia si ha l'impressione che tutto sia sospeso. Cosa Nostra è in crisi ma anche la lotta alla mafia sta subendo pesanti ritardi. Secondo La Licata «la scelta della legalità non paga perché una volta che il cittadino sporge denuncia, lo Stato ti sradica dal tuo paese e ti porta fuori dalla Sicilia.
Ad essere espulsi - conclude - dovrebbero essere invece i mafiosi».
Non poteva infine mancare un ricordo di Giovanni Falcone, ucciso da Cosa Nostra il 23 maggio 1992: «Di personaggi come Falcone ne nasce uno per secolo - ha sottolineato La Licata - Giovanni era uno che pensava in grande. Basti pensare che vinse in Cassazione un processo con 476 imputati. Riformò la lotta alla mafia dall'interno e la cosa non mancò di suscitare diversi malumori anche tra i suoi stessi colleghi. Alla fine venne letteralmente cacciato da Palermo.
Di magistrati come lui - ha concluso La Licata - non ne ho visti più».
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