Di Silvia Ronchey
A un passo da Piccadilly Circus lo stendardo della mostra copre l’intera facciata della Royal Academy of Arts. La figura dello spiritato arcangelo Michele dalle grandi ali d’oro è sovrastata dalla gigantesca scritta BYZANTIUM. Intorno, le banche cadono, è in crisi la City. Ma la Polis, Costantinopoli, da cui proviene la gran parte delle più di 300 inestimabili opere esposte in quello che fino a pochi mesi fa era il centro pulsante del profitto bancario, è ancora viva. «Le banche cadono ma l’arte continua», mormora Jason Goodwin. L’autore dell’Albero dei giannizzeri è venuto a raggiungerci dal Dorset per guardare la mostra con noi. La camicia azzurra è aperta sotto la giacca di tweed, incurante della pioggia sottile di questo gelido novembre inglese. «Mille anni di interessi, e ci vengono pagati ancora. Altro che credit crunch, questa è solvibilità».
Tra gli avori intagliati dove Apollo e Dafne vivono la loro ulteriore metamorfosi, trasfigurati nell’Angelo e nella Vergine, dove sgranano gli occhi i dignitari e i santi e un’imperatrice cosparsa di gioielli tiene in mano il globo del mondo, il calice di Antiochia, un tempo creduto il Graal, declina intricati simboli in cui l’iconografia dionisiaca si trasforma con naturalezza in quella del sacrificio cristiano. Ma a colpire sono soprattutto gli oggetti della vita quotidiana. L’argenteria domestica, nei cui monogrammi la croce ricorre come un’ossessione. Le stoffe, dove le scene evangeliche ritornano serialmente nelle trame dei telai, come oggi i loghi degli stilisti. Durante il saccheggio di Costantinopoli del 1204 Niceta Coniata si indignò che i crociati le usassero come giacigli per i cavalli. «Già», osserva Goodwin, «la conquista crociata. Gli oggetti migliori vengono dal tesoro di San Marco. Se quei predatori li hanno portati fin lì vuol dire che li ammiravano».
Ma la Quarta Crociata non fu una manovra di banche? Fu a spese di Bisanzio che il protocapitalismo veneziano dei traffici costruì il suo impero nel Levante. La logica finanziaria della Repubblica dei mercanti finì col minare l’impero dei dotti. «La gente lì viveva meglio di noi. Felicemente». Nonostante le guerre? le carestie? l’insicurezza? «Erano capaci di immaginare un altro mondo. Investivano in altro da questo mondo».
Non che l’aldilà fosse un investimento più sicuro dei mutui subprime o degli hedge funds. «No, ma era un investimento unico. E unificante. Altrettanto rischioso ma capace almeno di dare una direttiva. Un tiro di freccia che teneva insieme l’uno e l’altro mondo in un’identica traiettoria, insieme morale e materiale. Oggi siamo frammentati al nostro interno come i nostri pacchetti di investimenti».
E però, dalla Serbia al Caucaso, era la pluralità dei popoli, delle etnie, delle culture e perfino delle religioni a definire, come in un mosaico, l’immagine di Bisanzio. «Appunto. Alla fine, proprio come in un mosaico, da tutti quei pezzi emergeva un disegno unico. Non c’erano opposizioni, non c’era la finzione di una lotta tra opposti».
In effetti l’idea di scontro di civiltà nasce proprio dalla dissoluzione di quell’unica, ininterrotta linea di mediazione tra popoli e culture che dall’impero multietnico romano, continuato per undici secoli in quello bizantino, si biforcherà, a partire dal XV, da un lato nell’impero ottomano, dall’altro in quello russo, poi sovietico.
«Gli imperi sono collusivi», sintetizza Goodwin. «È per questo che gli americani non ne hanno uno. Essere imperialisti non significa sapere cosa sia un impero». L’unico vero, quello romano-bizantino, è caduto solo all’inizio e alla fine del Novecento, con il crollo, rispettivamente, della Sublime Porta e del Muro di Berlino. È un fatto che il XXI secolo si sia aperto con il conflitto etnico. E non è un caso che oggi le sue maggiori zone di crisi siano quelle in cui aleggia il fantasma di Bisanzio.
Guardiamo gli occhi delle grandi icone, le Vergini e i Pantocratori, le Ascensioni e le Trasfigurazioni, precise come congegni matematici. La complessità degli sguardi e gli illusionismi delle velature contrastano con la geometria astratta dei gesti, i codici delle linee e dei colori. «Quello delle icone è un gioco chiuso, ermetico, qui per entrare mi manca la chiave», si arrende Goodwin. Sono, di nuovo, la porta di un altro mondo, non conta se trascendente o immanente.
Vengono dalla stessa area balcanica su cui oggi Bisanzio proietta la luce livida della propria eclissi. Ma tutte le zone oggi in cenere erano allora in stato di fulgore. Non solo la Macedonia o la Serbia, ma il Sinai, l’Armenia o il bacino multireligioso della Mesopotamia, senza i cui influssi ciò che vediamo è incomprensibile. Il Commonwealth bizantino non era certo chiuso a chiave, anzi. La sua cultura e la sua civiltà circolavano ovunque.
La stretta, diretta e dimostrabile dipendenza dai maestri greci dei primi grandi maestri italiani, da Giunta Pisano ai pittori umbri e senesi, è uno degli assunti della mostra. Nella sezione curata dall’italiano Michele Bacci è esposto, accanto alle monumentali tavole dipinte, uno dei minuziosi fogli d’album dei maestri itineranti che trasmettevano la tradizione bizantina da un capo all’altro del mondo medievale. È la prova che nel nostro passato quelle civiltà oggi in apparenza antitetiche erano capaci di unirsi.
Fonte : La Stampa
lunedì 24 novembre 2008
Byzantium un altro mondo era possibile
Di Silvia Ronchey
A un passo da Piccadilly Circus lo stendardo della mostra copre l’intera facciata della Royal Academy of Arts. La figura dello spiritato arcangelo Michele dalle grandi ali d’oro è sovrastata dalla gigantesca scritta BYZANTIUM. Intorno, le banche cadono, è in crisi la City. Ma la Polis, Costantinopoli, da cui proviene la gran parte delle più di 300 inestimabili opere esposte in quello che fino a pochi mesi fa era il centro pulsante del profitto bancario, è ancora viva. «Le banche cadono ma l’arte continua», mormora Jason Goodwin. L’autore dell’Albero dei giannizzeri è venuto a raggiungerci dal Dorset per guardare la mostra con noi. La camicia azzurra è aperta sotto la giacca di tweed, incurante della pioggia sottile di questo gelido novembre inglese. «Mille anni di interessi, e ci vengono pagati ancora. Altro che credit crunch, questa è solvibilità».
Tra gli avori intagliati dove Apollo e Dafne vivono la loro ulteriore metamorfosi, trasfigurati nell’Angelo e nella Vergine, dove sgranano gli occhi i dignitari e i santi e un’imperatrice cosparsa di gioielli tiene in mano il globo del mondo, il calice di Antiochia, un tempo creduto il Graal, declina intricati simboli in cui l’iconografia dionisiaca si trasforma con naturalezza in quella del sacrificio cristiano. Ma a colpire sono soprattutto gli oggetti della vita quotidiana. L’argenteria domestica, nei cui monogrammi la croce ricorre come un’ossessione. Le stoffe, dove le scene evangeliche ritornano serialmente nelle trame dei telai, come oggi i loghi degli stilisti. Durante il saccheggio di Costantinopoli del 1204 Niceta Coniata si indignò che i crociati le usassero come giacigli per i cavalli. «Già», osserva Goodwin, «la conquista crociata. Gli oggetti migliori vengono dal tesoro di San Marco. Se quei predatori li hanno portati fin lì vuol dire che li ammiravano».
Ma la Quarta Crociata non fu una manovra di banche? Fu a spese di Bisanzio che il protocapitalismo veneziano dei traffici costruì il suo impero nel Levante. La logica finanziaria della Repubblica dei mercanti finì col minare l’impero dei dotti. «La gente lì viveva meglio di noi. Felicemente». Nonostante le guerre? le carestie? l’insicurezza? «Erano capaci di immaginare un altro mondo. Investivano in altro da questo mondo».
Non che l’aldilà fosse un investimento più sicuro dei mutui subprime o degli hedge funds. «No, ma era un investimento unico. E unificante. Altrettanto rischioso ma capace almeno di dare una direttiva. Un tiro di freccia che teneva insieme l’uno e l’altro mondo in un’identica traiettoria, insieme morale e materiale. Oggi siamo frammentati al nostro interno come i nostri pacchetti di investimenti».
E però, dalla Serbia al Caucaso, era la pluralità dei popoli, delle etnie, delle culture e perfino delle religioni a definire, come in un mosaico, l’immagine di Bisanzio. «Appunto. Alla fine, proprio come in un mosaico, da tutti quei pezzi emergeva un disegno unico. Non c’erano opposizioni, non c’era la finzione di una lotta tra opposti».
In effetti l’idea di scontro di civiltà nasce proprio dalla dissoluzione di quell’unica, ininterrotta linea di mediazione tra popoli e culture che dall’impero multietnico romano, continuato per undici secoli in quello bizantino, si biforcherà, a partire dal XV, da un lato nell’impero ottomano, dall’altro in quello russo, poi sovietico.
«Gli imperi sono collusivi», sintetizza Goodwin. «È per questo che gli americani non ne hanno uno. Essere imperialisti non significa sapere cosa sia un impero». L’unico vero, quello romano-bizantino, è caduto solo all’inizio e alla fine del Novecento, con il crollo, rispettivamente, della Sublime Porta e del Muro di Berlino. È un fatto che il XXI secolo si sia aperto con il conflitto etnico. E non è un caso che oggi le sue maggiori zone di crisi siano quelle in cui aleggia il fantasma di Bisanzio.
Guardiamo gli occhi delle grandi icone, le Vergini e i Pantocratori, le Ascensioni e le Trasfigurazioni, precise come congegni matematici. La complessità degli sguardi e gli illusionismi delle velature contrastano con la geometria astratta dei gesti, i codici delle linee e dei colori. «Quello delle icone è un gioco chiuso, ermetico, qui per entrare mi manca la chiave», si arrende Goodwin. Sono, di nuovo, la porta di un altro mondo, non conta se trascendente o immanente.
Vengono dalla stessa area balcanica su cui oggi Bisanzio proietta la luce livida della propria eclissi. Ma tutte le zone oggi in cenere erano allora in stato di fulgore. Non solo la Macedonia o la Serbia, ma il Sinai, l’Armenia o il bacino multireligioso della Mesopotamia, senza i cui influssi ciò che vediamo è incomprensibile. Il Commonwealth bizantino non era certo chiuso a chiave, anzi. La sua cultura e la sua civiltà circolavano ovunque.
La stretta, diretta e dimostrabile dipendenza dai maestri greci dei primi grandi maestri italiani, da Giunta Pisano ai pittori umbri e senesi, è uno degli assunti della mostra. Nella sezione curata dall’italiano Michele Bacci è esposto, accanto alle monumentali tavole dipinte, uno dei minuziosi fogli d’album dei maestri itineranti che trasmettevano la tradizione bizantina da un capo all’altro del mondo medievale. È la prova che nel nostro passato quelle civiltà oggi in apparenza antitetiche erano capaci di unirsi.
Fonte : La Stampa
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A un passo da Piccadilly Circus lo stendardo della mostra copre l’intera facciata della Royal Academy of Arts. La figura dello spiritato arcangelo Michele dalle grandi ali d’oro è sovrastata dalla gigantesca scritta BYZANTIUM. Intorno, le banche cadono, è in crisi la City. Ma la Polis, Costantinopoli, da cui proviene la gran parte delle più di 300 inestimabili opere esposte in quello che fino a pochi mesi fa era il centro pulsante del profitto bancario, è ancora viva. «Le banche cadono ma l’arte continua», mormora Jason Goodwin. L’autore dell’Albero dei giannizzeri è venuto a raggiungerci dal Dorset per guardare la mostra con noi. La camicia azzurra è aperta sotto la giacca di tweed, incurante della pioggia sottile di questo gelido novembre inglese. «Mille anni di interessi, e ci vengono pagati ancora. Altro che credit crunch, questa è solvibilità».
Tra gli avori intagliati dove Apollo e Dafne vivono la loro ulteriore metamorfosi, trasfigurati nell’Angelo e nella Vergine, dove sgranano gli occhi i dignitari e i santi e un’imperatrice cosparsa di gioielli tiene in mano il globo del mondo, il calice di Antiochia, un tempo creduto il Graal, declina intricati simboli in cui l’iconografia dionisiaca si trasforma con naturalezza in quella del sacrificio cristiano. Ma a colpire sono soprattutto gli oggetti della vita quotidiana. L’argenteria domestica, nei cui monogrammi la croce ricorre come un’ossessione. Le stoffe, dove le scene evangeliche ritornano serialmente nelle trame dei telai, come oggi i loghi degli stilisti. Durante il saccheggio di Costantinopoli del 1204 Niceta Coniata si indignò che i crociati le usassero come giacigli per i cavalli. «Già», osserva Goodwin, «la conquista crociata. Gli oggetti migliori vengono dal tesoro di San Marco. Se quei predatori li hanno portati fin lì vuol dire che li ammiravano».
Ma la Quarta Crociata non fu una manovra di banche? Fu a spese di Bisanzio che il protocapitalismo veneziano dei traffici costruì il suo impero nel Levante. La logica finanziaria della Repubblica dei mercanti finì col minare l’impero dei dotti. «La gente lì viveva meglio di noi. Felicemente». Nonostante le guerre? le carestie? l’insicurezza? «Erano capaci di immaginare un altro mondo. Investivano in altro da questo mondo».
Non che l’aldilà fosse un investimento più sicuro dei mutui subprime o degli hedge funds. «No, ma era un investimento unico. E unificante. Altrettanto rischioso ma capace almeno di dare una direttiva. Un tiro di freccia che teneva insieme l’uno e l’altro mondo in un’identica traiettoria, insieme morale e materiale. Oggi siamo frammentati al nostro interno come i nostri pacchetti di investimenti».
E però, dalla Serbia al Caucaso, era la pluralità dei popoli, delle etnie, delle culture e perfino delle religioni a definire, come in un mosaico, l’immagine di Bisanzio. «Appunto. Alla fine, proprio come in un mosaico, da tutti quei pezzi emergeva un disegno unico. Non c’erano opposizioni, non c’era la finzione di una lotta tra opposti».
In effetti l’idea di scontro di civiltà nasce proprio dalla dissoluzione di quell’unica, ininterrotta linea di mediazione tra popoli e culture che dall’impero multietnico romano, continuato per undici secoli in quello bizantino, si biforcherà, a partire dal XV, da un lato nell’impero ottomano, dall’altro in quello russo, poi sovietico.
«Gli imperi sono collusivi», sintetizza Goodwin. «È per questo che gli americani non ne hanno uno. Essere imperialisti non significa sapere cosa sia un impero». L’unico vero, quello romano-bizantino, è caduto solo all’inizio e alla fine del Novecento, con il crollo, rispettivamente, della Sublime Porta e del Muro di Berlino. È un fatto che il XXI secolo si sia aperto con il conflitto etnico. E non è un caso che oggi le sue maggiori zone di crisi siano quelle in cui aleggia il fantasma di Bisanzio.
Guardiamo gli occhi delle grandi icone, le Vergini e i Pantocratori, le Ascensioni e le Trasfigurazioni, precise come congegni matematici. La complessità degli sguardi e gli illusionismi delle velature contrastano con la geometria astratta dei gesti, i codici delle linee e dei colori. «Quello delle icone è un gioco chiuso, ermetico, qui per entrare mi manca la chiave», si arrende Goodwin. Sono, di nuovo, la porta di un altro mondo, non conta se trascendente o immanente.
Vengono dalla stessa area balcanica su cui oggi Bisanzio proietta la luce livida della propria eclissi. Ma tutte le zone oggi in cenere erano allora in stato di fulgore. Non solo la Macedonia o la Serbia, ma il Sinai, l’Armenia o il bacino multireligioso della Mesopotamia, senza i cui influssi ciò che vediamo è incomprensibile. Il Commonwealth bizantino non era certo chiuso a chiave, anzi. La sua cultura e la sua civiltà circolavano ovunque.
La stretta, diretta e dimostrabile dipendenza dai maestri greci dei primi grandi maestri italiani, da Giunta Pisano ai pittori umbri e senesi, è uno degli assunti della mostra. Nella sezione curata dall’italiano Michele Bacci è esposto, accanto alle monumentali tavole dipinte, uno dei minuziosi fogli d’album dei maestri itineranti che trasmettevano la tradizione bizantina da un capo all’altro del mondo medievale. È la prova che nel nostro passato quelle civiltà oggi in apparenza antitetiche erano capaci di unirsi.
Fonte : La Stampa
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