domenica 26 ottobre 2008

Pio XII nell'inverno del terrore


Lo storico Riccardi ripercorre il biennio in cui Roma fu occupata dai nazisti
Di Arrigo Levi


Accade che un giornalista tenti di trasformarsi in storico, talvolta anche con successo. È assai meno frequente che uno storico di fama decida di raccontare una particolare vicenda storica con lo stile e il metodo operativo di un giornalista.
Quando riesce a farlo mantenendo, nella raccolta delle testimonianze come dei documenti, lo scrupolo minuzioso dello storico, il risultato può essere straordinario, specie se la storia che si vuole raccontare è tanto drammatica ed emozionante quanto complessa. Andrea Riccardi, forse il maggiore storico del cattolicesimo contemporaneo, ha incominciato più di trent'anni fa a raccogliere dati su quelle che, col tempo, sono diventate le «tessere di un mosaico» che si è ora trasformato in un libro, edito da Laterza, che ha per titolo L’inverno più lungo, e per sottotitolo: «1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma».

Riccardi si richiama, come fonti d'ispirazione del suo lavoro, a una parola del «grande rabbino di Roma, Elio Toaff» («la storia della Shoah è come un grande mosaico, in cui ogni tessera è espressione di sofferenza, di dolore, di disperazione»), e all’insegnamento venutogli da un grande maestro ed amico, che era Pietro Scoppola.
Il sottotitolo, menzionando necessariamente Pio XII fra i protagonisti dei 268 giorni di quel «lungo inverno», rischia di indurre parzialmente in errore il lettore che abbia seguito sui giornali l’intenso dibattito pro e contro il Papa per ciò che fece o non fece in quel periodo.
Questo non è un ennesimo libro su Pio XII. È una appassionata cronaca di innumerevoli episodi, le «tessere» del mosaico, popolato di singole figure, con le loro particolari traversie in quel periodo denso di tragedie - prima fra tutte la razzia del ghetto, il 16 ottobre 1943 - ma ricco anche di atti di straordinaria umanità nei confronti dei perseguitati in fuga: primi fra tutti gli ebrei romani, ma oltre a loro anche gli antifascisti o i fuggiaschi dal terrore tedesco. Sicché si disse che in quei giorni «mezza Roma nascondeva l’altra mezza Roma».
Non mancarono, ovviamente, atti di viltà e di malvagità. Ma il sentimento dominante, nel lettore di questa grande cronaca, penso sia quello di identificazione con i sentimenti di umanità e di coraggio di quella «mezza Roma», e anzi di quella «mezza Italia», che in ogni città e regione controllata dai nazisti e fascisti salvò i perseguitati, e così facendo salvò la coscienza degli Italiani.

Per la sua struttura cronistica è impossibile offrire una sintesi di questo libro di Riccardi.
Ogni personaggio, con nome e cognome, viene seguito nella sua affannosa ricerca di salvezza, o nella sua tragedia, ma è subito seguito da un altro, in un incessante spostamento da un capo all'altro della grande città in quel terribile inverno.
Non è certo per scelta dell’autore se lo stuolo dei protagonisti consiste, in grandissima parte, degli ebrei, e dei religiosi loro salvatori. Gli ebrei romani catturati, quasi tutti morti nei lager, furono fra i due e i tremila. Quelli che sopravvissero nella città furono fra i dieci e i dodicimila, di cui più di 4 mila ospitati nei conventi e sedi ecclesiastiche. Vale per Roma, forse anche in maggior misura, ciò che vale per il resto d'Italia, il fatto cioè che i sacerdoti d’ogni rango e tutto il mondo cattolico ebbero una parte preponderante per la salvezza degli ebrei italiani: «Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l’aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o iscritti ad Azione Cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale» (cito da uno scritto di Liliana Picciotto, forse la maggiore studiosa della materia).

Quanto alla questione Pio XII, alcuni fatti sono evidenti e indiscutibili.
Il primo è il silenzio del Papa: Pio XII non denunciò pubblicamente la razzia del ghetto, o la strage delle Fosse Ardeatine, o la sconfinata tragedia della Shoah.
Il secondo è che la Santa Sede compì ripetuti passi diplomatici, fidandosi, a torto, dell’ambasciatore tedesco, minacciando una protesta pubblica del Papa se la deportazione fosse continuata.
Il terzo è che non solo a Roma ma in tutta Italia l’apertura dei conventi e l'organizzazione del salvataggio degli Ebrei e di altri perseguitati da parte del clero ebbe dimensioni tali da rendere certo, anche per molte testimonianze, che il Papa avesse dato il proprio assenso (anche se non per iscritto: sarebbe stato follia) a questa azione corale.

Posso aggiungere che nei primi tempi dopo la fine della guerra le espressioni di gratitudine di Ebrei alla Chiesa e al Papa furono numerosissime. A noi Levi parve importante che due mie zie si fossero salvate a Modena rifugiandosi al Convento del Buon Pastore, e che un altro zio fosse stato accolto col figlio in Vaticano (o al Laterano: dove si rifugiarono, protetti dalla extraterritorialità della sede del vescovo di Roma, non solo ebrei ma l’intero Cln centrale, con Nenni, Saragat, Ivanoe Bonomi, De Gasperi, Meuccio Ruini e altri ancora: gli ospiti del Laterano furono in totale più di 40 mila).
Certo che il Papa sapeva! Tacque sulla Shoah, per prudenza, nel timore del peggio.

Fossi cattolico, potrei anche dolermi che Pio XII, andando con la croce in mano nella sua bianca veste al ghetto il giorno della razzia, non abbia dato alla Chiesa una schiera gloriosa di martiri. Come ebreo, mi associo a Toaff nella lode della «grande compassionevole bontà del Papa durante gli infelici anni della persecuzione», e giustifico il suo silenzio, senza il quale molte altre migliaia di ebrei sarebbero finiti nei forni crematori.

Questa divagazione non mi lascia spazio per dare un più giusto ed ampio resoconto del bellissimo e tremendo affresco che Riccardi, storico e cronista, ci offre dell’inverno del terrore a Roma, come dell'esultanza del popolo romano, e della indubbia gratitudine al Papa di cattolici ed ebrei, nei giorni della liberazione. Forse la storia, per essere veridica, deve davvero essere raccontata con gli occhi del cronista contemporaneo, non con quelli di uno storico in ritardo sui fatti di qualche decennio.

Fonte: La Stampa
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Lo storico Riccardi ripercorre il biennio in cui Roma fu occupata dai nazisti
Di Arrigo Levi


Accade che un giornalista tenti di trasformarsi in storico, talvolta anche con successo. È assai meno frequente che uno storico di fama decida di raccontare una particolare vicenda storica con lo stile e il metodo operativo di un giornalista.
Quando riesce a farlo mantenendo, nella raccolta delle testimonianze come dei documenti, lo scrupolo minuzioso dello storico, il risultato può essere straordinario, specie se la storia che si vuole raccontare è tanto drammatica ed emozionante quanto complessa. Andrea Riccardi, forse il maggiore storico del cattolicesimo contemporaneo, ha incominciato più di trent'anni fa a raccogliere dati su quelle che, col tempo, sono diventate le «tessere di un mosaico» che si è ora trasformato in un libro, edito da Laterza, che ha per titolo L’inverno più lungo, e per sottotitolo: «1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma».

Riccardi si richiama, come fonti d'ispirazione del suo lavoro, a una parola del «grande rabbino di Roma, Elio Toaff» («la storia della Shoah è come un grande mosaico, in cui ogni tessera è espressione di sofferenza, di dolore, di disperazione»), e all’insegnamento venutogli da un grande maestro ed amico, che era Pietro Scoppola.
Il sottotitolo, menzionando necessariamente Pio XII fra i protagonisti dei 268 giorni di quel «lungo inverno», rischia di indurre parzialmente in errore il lettore che abbia seguito sui giornali l’intenso dibattito pro e contro il Papa per ciò che fece o non fece in quel periodo.
Questo non è un ennesimo libro su Pio XII. È una appassionata cronaca di innumerevoli episodi, le «tessere» del mosaico, popolato di singole figure, con le loro particolari traversie in quel periodo denso di tragedie - prima fra tutte la razzia del ghetto, il 16 ottobre 1943 - ma ricco anche di atti di straordinaria umanità nei confronti dei perseguitati in fuga: primi fra tutti gli ebrei romani, ma oltre a loro anche gli antifascisti o i fuggiaschi dal terrore tedesco. Sicché si disse che in quei giorni «mezza Roma nascondeva l’altra mezza Roma».
Non mancarono, ovviamente, atti di viltà e di malvagità. Ma il sentimento dominante, nel lettore di questa grande cronaca, penso sia quello di identificazione con i sentimenti di umanità e di coraggio di quella «mezza Roma», e anzi di quella «mezza Italia», che in ogni città e regione controllata dai nazisti e fascisti salvò i perseguitati, e così facendo salvò la coscienza degli Italiani.

Per la sua struttura cronistica è impossibile offrire una sintesi di questo libro di Riccardi.
Ogni personaggio, con nome e cognome, viene seguito nella sua affannosa ricerca di salvezza, o nella sua tragedia, ma è subito seguito da un altro, in un incessante spostamento da un capo all'altro della grande città in quel terribile inverno.
Non è certo per scelta dell’autore se lo stuolo dei protagonisti consiste, in grandissima parte, degli ebrei, e dei religiosi loro salvatori. Gli ebrei romani catturati, quasi tutti morti nei lager, furono fra i due e i tremila. Quelli che sopravvissero nella città furono fra i dieci e i dodicimila, di cui più di 4 mila ospitati nei conventi e sedi ecclesiastiche. Vale per Roma, forse anche in maggior misura, ciò che vale per il resto d'Italia, il fatto cioè che i sacerdoti d’ogni rango e tutto il mondo cattolico ebbero una parte preponderante per la salvezza degli ebrei italiani: «Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l’aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o iscritti ad Azione Cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale» (cito da uno scritto di Liliana Picciotto, forse la maggiore studiosa della materia).

Quanto alla questione Pio XII, alcuni fatti sono evidenti e indiscutibili.
Il primo è il silenzio del Papa: Pio XII non denunciò pubblicamente la razzia del ghetto, o la strage delle Fosse Ardeatine, o la sconfinata tragedia della Shoah.
Il secondo è che la Santa Sede compì ripetuti passi diplomatici, fidandosi, a torto, dell’ambasciatore tedesco, minacciando una protesta pubblica del Papa se la deportazione fosse continuata.
Il terzo è che non solo a Roma ma in tutta Italia l’apertura dei conventi e l'organizzazione del salvataggio degli Ebrei e di altri perseguitati da parte del clero ebbe dimensioni tali da rendere certo, anche per molte testimonianze, che il Papa avesse dato il proprio assenso (anche se non per iscritto: sarebbe stato follia) a questa azione corale.

Posso aggiungere che nei primi tempi dopo la fine della guerra le espressioni di gratitudine di Ebrei alla Chiesa e al Papa furono numerosissime. A noi Levi parve importante che due mie zie si fossero salvate a Modena rifugiandosi al Convento del Buon Pastore, e che un altro zio fosse stato accolto col figlio in Vaticano (o al Laterano: dove si rifugiarono, protetti dalla extraterritorialità della sede del vescovo di Roma, non solo ebrei ma l’intero Cln centrale, con Nenni, Saragat, Ivanoe Bonomi, De Gasperi, Meuccio Ruini e altri ancora: gli ospiti del Laterano furono in totale più di 40 mila).
Certo che il Papa sapeva! Tacque sulla Shoah, per prudenza, nel timore del peggio.

Fossi cattolico, potrei anche dolermi che Pio XII, andando con la croce in mano nella sua bianca veste al ghetto il giorno della razzia, non abbia dato alla Chiesa una schiera gloriosa di martiri. Come ebreo, mi associo a Toaff nella lode della «grande compassionevole bontà del Papa durante gli infelici anni della persecuzione», e giustifico il suo silenzio, senza il quale molte altre migliaia di ebrei sarebbero finiti nei forni crematori.

Questa divagazione non mi lascia spazio per dare un più giusto ed ampio resoconto del bellissimo e tremendo affresco che Riccardi, storico e cronista, ci offre dell’inverno del terrore a Roma, come dell'esultanza del popolo romano, e della indubbia gratitudine al Papa di cattolici ed ebrei, nei giorni della liberazione. Forse la storia, per essere veridica, deve davvero essere raccontata con gli occhi del cronista contemporaneo, non con quelli di uno storico in ritardo sui fatti di qualche decennio.

Fonte: La Stampa

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