Di Vittorio MESSORI,
Tratto da: Un italiano serio.
Il beato Francesco Faà di Bruno
Ed.Paoline, Milano 1990, p. 194-196.
Quella tenace «opposizione cattolica» (che i cattolici, va sempre ricordato a chi non abbia più consapevolezza di quel periodo storico, non scelsero ma furono costretti a scegliere) va inquadrata anche nello scenario davvero spaventoso del Sud conquistato da Garibaldi e da lui consegnato a Vittorio Emanuele.
Già se ne erano avute le sinistre avvisaglie, quando Nino Bixio, luogotenente dell'«Eroe dei due mondi», aveva represso i moti sociali tra i contadini siciliani con fucilazioni di massa e con l'incendio dei villaggi.
Nella successiva «guerra al brigantaggio» - come fu chiamata per celarne la natura di sanguinosa repressione di un sollevamento popolare, quasi di un movimento di liberazione nazionale, seppure talvolta inquinato dalla presenza di puri e semplici malfattori - caddero assai più uomini di quanti non ne fossero morti nelle battaglie e nelle scaramucce delle guerre per l'indipendenza.
Per anni, nei territori che erano stati del regno delle Due Sicilie, furono impiegati 120.000 soldati: più della metà, cioè, dell'esercito nazionale, con tanto di batterie d'artiglieria per i bombardamenti.
Stando a una relazione ufficiale dello stesso generale Enrico Cialdini che comandava la terribile repressione, nei soli primi mesi e solo nel Napoletano, le incredibili cifre erano queste: 8968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7112 prigionieri; 918 case bruciate; 6 paesi interamente arsi; 2905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13.629 imprigionati; 1428 comuni posti in stato d'assedio.
Antonio Socci: «È un dato inquietante e purtroppo innegabile che l'unità d'Italia non si fa sulla lotta allo straniero, non si fa sulla guerra all'austriaco, ma sul sangue italiano, sul sangue del popolo». (Pur riconoscendo che, come in ogni guerra civile, atrocità ci furono da entrambe le parti. Pare, tra l'altro che, su certi mercati calabresi fosse messa in vendita "vera carne di bersagliere"! Regola costante dei soldati come degli insorti fu di non fare prigionieri ma di uccidere chiunque si arrendesse o fosse catturato).
È anche da questa tragedia che nasce quell'altra, sino ad allora sconosciuta, dell'emigrazione di massa all'estero.
Tra il 1876 e il 1914 se ne andarono ben 14 milioni di italiani: e, questo, nell'assoluta indifferenza dello Stato liberale (che, anzi, contava sull'effetto "benefico" delle rimesse degli emigranti ai vecchi rimasti a casa).
Anche qui, solo da parte cattolica si cercò di venire in soccorso di queste masse enormi di miserabili, sradicati da una terra povera ma dalla quale sino ad allora non erano mai scappati.
Tra i molti altri si mosse, indefesso, il vescovo di Piacenza, mons. Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), che giunse a fondare una Congregazione di sacerdoti e di laici per l'assistenza agli emigranti e a istituire nei porti di sbarco degli uffici di prima accoglienza.
Don Bosco stesso così esortava i suoi missionari in partenza per l'America del Sud: "Andate, cercate questi nostri fratelli che la miseria e la sventura portò in terra straniera!".
E, in effetti, le case salesiane (e quelle religiose in generale), furono i luoghi di rifugio attorno ai quali girò il mondo dell'emigrazione: alla fine dell'Ottocento i soli figli di don Bosco e nella sola Argentina assistevano direttamente (stando a una insospettabile fonte governativa) ben 150.000 poveri connazionali. i quali, dalla rete consolare e dai ministeri della «Nuova Italia» che vedeva un futuro civile solo nella liberazione dal cattolicesimo, non avevano ricevuto che il famigerato "passaporto rosso", con le impronte digitali al posto della firma che i titolari non sapevano fare.
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