Il grande scrittore russo Aleksandr Isaevich Solzenicyn, da tempo gravemente ammalato, è morto ad 89 anni, la notte di domenica 3 agosto 2008, nella sua casa immersa tra i boschi di Troitse-Lykovo, presso Mosca. Nato a Kislovodsk, l’11 dicembre 1918, da un’agiata famiglia di agricoltori, aveva studiato matematica e fisica; nel 1970 gli fu conferito il Premio Nobel per la letteratura e, nel 2007, la maggiore onorificenza russa per “i grandi risultati raggiunti in letteratura”.
“Non vivere secondo menzogna” è stato il motto che lo ha guidato nella vita e che egli ha sempre onorato con coraggio e tenacia, soprattutto nelle dure prove alle quali è stato sottoposto.
Solzenicyn è stato uno dei maggiori testimoni delle atrocità del regime comunista sovietico, denunciando l’esistenza di un enorme sistema di lager, nei quali subirono torture indicibili e trovarono la morte milioni di cittadini dell’URRS. Lager dei quali lo scrittore ebbe esperienz diretta, poichè vi fu rinchiuso dal 1945 al 1953, condannato ad otto anni per aver criticato in una lettera dal fronte la condotta di Stalin, e che descrisse nel romanzo “Una giornata di Ivan Denisovich”, pubblicato in patria nel 1962, durante il periodo di "destalinizzazione" voluto da Nikita Khrusciov.
Libertà di pensare e di agire durarono poco per lui: la sua ferma opposizione al totalitarismo comunista, che con la violenza aperta e l’oppressione subdola schiacciava la vita e l’identità del popolo russo - la cui anima, secondo Solzenicyn, era riconoscibile soltanto attraverso la tradizione millenaria della fede ortodossa - ne fecero un nemico per il regime sovietico, che gli impedì altre pubblicazioni, lo sottopose a restrizioni, confino, ripetuti arresti, domicili coatti, tentativi di omicidio, fino all’esilio imposto da Leonid Brezhnev nel 1974.
Le sue opere maggiori, proibite in URRS e circolanti clandestinamente solo attraverso la rete del samizdat (copia a mano di interi volumi) furono pubblicate in Occidente, a partire dal monumentale “Arcipelago Gulag” - tre volumi che documentano il complesso sistema di campi di concentramento, attraverso la testimonianza di oltre duecento vittime - continuando con “Il primo cerchio” e “Padiglione cancro”, nei quali Solzenicyn racconta la tetra quotidianità del regime, la violenza dell’apparato burocratico e i privilegi della “nomenklatura”, ma richiama anche la responsabilità individuale di fronte al male e in particolare quella dell'intellettuale nei confronti del potere e della storia.
Profondamente onesto e coerente, durante i venti anni di esilio tra Europa e USA, non rinunciò ad esprimere la propria dura critica alle correnti filosofiche di derivazione illuminista, all'ipocrisia del sistema democratico, al prepotere mediatico, al consumismo e al permissivismo, ribadendo la fedeltà ai principi tradizionali e religiosi. Grande scalpore, su questi temi, fece il discorso tenuto all’Università di Harvard.
Soltanto nel 1994, dopo la caduta del regime comunista, Solzenicyn poté finalmente rientrare in Russia, dove continuò a rappresentare la coscienza critica della nazione, contro la corruzione della nuova oligarchia al potere.
La sua morte priva il mondo di una voce severa e ferma contro le tante facce della rivoluzione.
“Non vivere secondo menzogna” è stato il motto che lo ha guidato nella vita e che egli ha sempre onorato con coraggio e tenacia, soprattutto nelle dure prove alle quali è stato sottoposto.
Solzenicyn è stato uno dei maggiori testimoni delle atrocità del regime comunista sovietico, denunciando l’esistenza di un enorme sistema di lager, nei quali subirono torture indicibili e trovarono la morte milioni di cittadini dell’URRS. Lager dei quali lo scrittore ebbe esperienz diretta, poichè vi fu rinchiuso dal 1945 al 1953, condannato ad otto anni per aver criticato in una lettera dal fronte la condotta di Stalin, e che descrisse nel romanzo “Una giornata di Ivan Denisovich”, pubblicato in patria nel 1962, durante il periodo di "destalinizzazione" voluto da Nikita Khrusciov.
Libertà di pensare e di agire durarono poco per lui: la sua ferma opposizione al totalitarismo comunista, che con la violenza aperta e l’oppressione subdola schiacciava la vita e l’identità del popolo russo - la cui anima, secondo Solzenicyn, era riconoscibile soltanto attraverso la tradizione millenaria della fede ortodossa - ne fecero un nemico per il regime sovietico, che gli impedì altre pubblicazioni, lo sottopose a restrizioni, confino, ripetuti arresti, domicili coatti, tentativi di omicidio, fino all’esilio imposto da Leonid Brezhnev nel 1974.
Le sue opere maggiori, proibite in URRS e circolanti clandestinamente solo attraverso la rete del samizdat (copia a mano di interi volumi) furono pubblicate in Occidente, a partire dal monumentale “Arcipelago Gulag” - tre volumi che documentano il complesso sistema di campi di concentramento, attraverso la testimonianza di oltre duecento vittime - continuando con “Il primo cerchio” e “Padiglione cancro”, nei quali Solzenicyn racconta la tetra quotidianità del regime, la violenza dell’apparato burocratico e i privilegi della “nomenklatura”, ma richiama anche la responsabilità individuale di fronte al male e in particolare quella dell'intellettuale nei confronti del potere e della storia.
Profondamente onesto e coerente, durante i venti anni di esilio tra Europa e USA, non rinunciò ad esprimere la propria dura critica alle correnti filosofiche di derivazione illuminista, all'ipocrisia del sistema democratico, al prepotere mediatico, al consumismo e al permissivismo, ribadendo la fedeltà ai principi tradizionali e religiosi. Grande scalpore, su questi temi, fece il discorso tenuto all’Università di Harvard.
Soltanto nel 1994, dopo la caduta del regime comunista, Solzenicyn poté finalmente rientrare in Russia, dove continuò a rappresentare la coscienza critica della nazione, contro la corruzione della nuova oligarchia al potere.
La sua morte priva il mondo di una voce severa e ferma contro le tante facce della rivoluzione.
Fraternità Cattolica
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