L’ECCIDIO
di Pontelandolfo e Casalduni
di Antonio Ciano
da: “I Savoia e il massacro del sud” - Grandmelò, ROMA, 1996
di Pontelandolfo e Casalduni
di Antonio Ciano
da: “I Savoia e il massacro del sud” - Grandmelò, ROMA, 1996
[...] La voce dei disordini di Pontelandolfo arrivò fino a Napoli. Il macellaio piernontese Cialdini covava vendetta nel suo animo; da tutto il Meridione arrivavano notizie di città e paesi liberati dai partigiani borbonici e Casa Savoia era allertata al massimo, per cui dà Torino arrivavano a Napoli dispacci allarmanti e duri. I contadini, organizzati militarmente nelle bande partigiane, anche se male armati, davano lezioni di guerriglia; l’armata piemontese veniva umiliata continuamente.
Era quella una guerra non dichiarata, l’esercito piemontese non aveva di fronte un altro esercito, e la cosa che più faceva imbestialire gli alti comandi savoiardi, era il fatto che quei “briganti” non osavano affrontarli in campo aperto e loro molte volte erano costretti a prendere a cannonate gli Appennini, ammazzando qualche camoscio e qualche cervo con i cannoni rigati, gli stessi che avevano bombardato e rasa al suolo Gaeta, città martire.
Ad ogni disfatta dei suoi uomini il criminale di guerra, nonché macellaio, Cialdini, dava ordini di ritorsione terribili, che, secondo la sua ottusa e mostruosa immaginazione dovevano servire a rendere mansuete le popolazioni del Sud.
Tali ritorsioni consistevano nel fucilare senza pietà la classe infima composta da contadini, operai e artigiani, gente colpevole solo di difendere la propria terra dagli incendi che, senza pietà, i bersaglieri appiccavano ai pagliai e ai raccolti. I piemontesi rubavano tutto: galline, pecore, maiali, conigli.
Questi erano gli ordini. Non poche volte si diedero agli stupri di massa.
La rabbia dei contadini aumentava di giorno in giorno e si scaricava in sommosse spontanee contro i centri di potere che rappresentavano i barbari cisalpini e contro i liberali loro servi e lacchè.
La gente del Sud era fondamentalmente buona, timorata di Dio, attaccata alle tradizioni secolari e gelosa fino al parossismo dei propri costumi, delle feste religiose, della propria lingua, dell’attaccamento alla casa regnante borbonica; gelosa della famiglia che riteneva sacra ed indivisibile. Si concepivano tanti figli quanti una famiglia ne potesse sostentare; i contadini erano gelosi delle loro donne come lo erano della proprietà e delle terre demaniali che i sovrani borbonici lasciavano sfruttare al popolo con leggi adeguate.
La gente del Sud era attaccata ai valori ed ai comandamenti della chiesa cattolica, ai suoi dogmi, alle sue leggi, alla sua morale; venerava e frequentava i sacri templi. I piemontesi osarono attaccare le fondamenta della società meridionale ed i contadini si ribellarono; presero subito coscienza che qualcosa di grande si stava abbattendo sulle loro teste, sulle loro famiglie.
I cafoni, la classe infima, abituata da sempre ai sacrifici, al duro lavoro dei campi, al peso della zappa, al freddo polare degli inverni della dorsale appenninica e al caldo torrido delle estati di quelle zone, presero il fucile e ad ogni sparo sentivano qualcosa di bello liberarsi dentro l’anima.
I contadini dovevano difendere il loro Re, la loro religione, la loro terra, i loro boschi, le loro donne, la loro dignità, la loro libertà dalle mani luride ed appiccicose dei piemontesi.
A Pontelandolfo voci davano per certo ed imminente lo sbarco di Francesco II a Napoli; tutto era tranquillo, era domenica ed il caldo era tremendo.
Nella chiesa di San Donato il prete stava celebrando la messa cantata mattutina, quando tra le gente si sparse la voce che una compagnia di piemontesi stava razziando le campagne attorno a Pontelandolfo. - I piemontesi stanno saccheggiando i nostri raccolti, setacciano le case e si stanno dirigendo qui! - gridò qualcuno.
- Armiamoci, sono sfuggiti al generale Bosco, ammazziamoli, dobbiamo vendicare i nostri fratelli molisani ed abruzzesi - gridò qualcun altro.
Infatti era vero, il luogotenente Cesare Augusto Bracci stava conducendo una compagnia del 36° fanteria da Campobasso a Pontelandolfo.
Aveva fatto tappa a Sepino per rifocillare la truppa, ma, non trovando buona accoglienza, proseguì, impaziente di imbattersi con i partigiani, verso Pontelandolfo (5). Bracci era stato mandato a Pontelandolfo, con quaranta bersaglieri e quattro carabinieri, per ristabilire l’ordine piemontese e le regole che Cialdini aveva dettato a Napoli il giorno del suo arrivo.
Non erano regole ma ordini del più forte: fucilazioni, fucilazioni e poi ancora fucilazioni. Man mano che la pattuglia si avvicinava al paese, il tenente Bracci s’accorgeva dell’ostilità della gente verso i piemontesi:
Andate via! gridavano dai campi. - Andate via, morirete tutti!
Pallanzoni, andatevene, non vi vogliamo, il generale Bosco vi massacrerà. - Dov’è il generale Bosco? - E’ arrivato a Benevento.
Il comandante della pattuglia non si sentiva più sicuro; sentendo la messa mattutina cantata nei pressi di San Donato, gli suonò come un triste presagio e decise di mettere uno straccio bianco sulla baionetta del suo fucile, in segnò di pace. In fila indiana la sua pattuglia si diresse verso piazza del Tiglio; vedendo i muri tappezzati col proclama del generale Chiavone, qualche bersagliere fu preso da raptus patriottico e istintivamente strappò qualche manifesto.
Non appena arrivati in località Borgotello udirono dei colpi di fucile. Un bersagliere rimase stecchito.
Le campane suonavano a stormo per dare l’allarme, la gente scappava sulla montagna a piedi o a cavallo, mentre i bersaglieri piemontesi si accostarono ai muri delle case con i fucili spianati verso la folla che si stava accalcando sulla piazza. I militari savoiardi rimasero sorpresi nel vedere la città imbandierata di bianco, vedevano bandiere borboniche dappertutto e i manifesti di Chiavone, parlottavano fra loro in dialetto piemontese, incomprensibile agli indigeni.
La gente li osservava, scrutava ogni mossa dei bersaglieri e ne seguiva i movimenti.
Il tenente Bracci vide un signore avvicinarsi e gli chiese: - Senti, quelli che stanno scappando sulla montagna sono briganti?. Golino, era il nome di quel signore, che rispose alla domanda dell’ufficiale livornese: - No, sono pacifici cittadini; hanno paura che succeda qualcosa e vanno in montagna per farsi proteggere dai partigiani. Bracci: - E le autorità? Dove sono?. Golino: - Son fuggiti tutti. Qui, Signor Tenente, sono tutti dalla parte dei Borbone.
Il sindaco e gli altri sono fuggiti ed ora la città è amministrata da un governo provvisorio. Bracci: - Portaci qualcosa da mangiare, abbiamo razziato ben poco. Golino: - Non c’è niente da mangiare, se mi vedono portarvi qualcosa i paesani mi ammazzano. In quel momento giunse un soldato rimasto indietro e con affanno rivolgendosi al suo ufficiale, disse: Sior tenente, sono riuscito a scappare dalle mani di questa gente, sono tanti, hanno ammazzato uno dei nostri.
Bracci: - Dio cane! Dobbiamo metterci al riparo, sono tanti; forza, andiamo lassù!. La pattuglia si diresse verso Pian della Croce; i soldati si appostarono e cominciarono a sparare alla cieca sulla folla ferendo molti cittadini. Questo episodio incarognì la gente.
Due soldati che erano rimasti in una bettola all’ingresso del paese, e che stavano tracannando vino a scrocco, vennero accerchiati dai partigiani ……… il vice di Giordano, in un baleno disarmò i due, sottraendoli ai suoi compagni che avrebbero voluto ammazzarli.
Questi ultimi furono fermati con decisione da Domenico Brugnetti, cocchiere di Don Giovanni Perugini, che, rivolgendosi al guerrigliero Michelangelo Pistacchio disse: - Michè, lasciali stare, sono di leva e sono contadini come te, guarda le loro mani, vengono comandati ………. Dal Piano della Croce i soldati piemontesi passarono alla masseria di Don Saverio Golino. Appena giunto al casino del Golino, il tenente Bracci gridò come un ossesso:
- Prendetemi i contadini, sono tutti briganti, li fucilo tutti senza pietà!.
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