domenica 31 agosto 2008

IL "MIRACOLO" DEL NUCLEARE E L'ANELLO AL NASO...



Mentre il ministro Prestigiacomo ed il Governatore Lombardo fanno a gara nel richiedere la costruzione di nuove centrali nucleari in Sicilia, dichiarando ai quattro venti che il nucleare è una tecnologia diffusa e sicura con costi contenuti e rapidi tempi di realizzazione, nel mondo , ormai settimanalmente, i guasti nelle centrali nuclari dimostrano esattamente il contrario......

L'ultima è di ieri, in Belgio, l'ennesimo disastro devastante, ovviamente denunciato in ritardo dalle ( in) competenti autorità...

Ma.....non preoccupatevi,le televisioni di regime non ne parlano, la popolazione ignora questi dati, perciò il problema non esiste....

Dopo il "miracolo della monnezza" di Napoli ed il "miracolo" Alitalia, stà per arrivare un altro "miracolo" del nostro governo....il "miracolo" dell'approvvigionamento energetico tramite il nucleare...

Ovviamente i territori interessati a questi "miracoli"ambientali sono la Napoletania per gli inceneritori ,assolutamente sovradimensionati rispetto alle reali esigenze (scopriremo in futuro il perchè..) e la Sicilia per le centrali nucleari.

Infatti al nord la Lega, forte del successo elettorale ottenuto, non permetterà il compimento di "miracoli"che mettano in pericolo l'ambiente sui territori Padani.....

Il conto di questa miracolistica stagione, forse, non lo pagheremo noi, ma le nuove generazioni ed il territorio.

E' già da tempo che battiamo su questo tasto, la vera emergenza non è il "federalismo fiscale", o meglio non solo, una eventuale pessima legge si può sempre combattere e cambiare.

La vera emergenza, per il Sud, è quella della devastazione ambientale del territorio e del relativo inquinamento che causerà danni inimmaginabili alle future generazioni.

I colonialisti italiani hanno individuato un nuovo filone da sfruttare per i loro guadagni nella " colonia interna meridionale".

Pensano che abbiamo tutti l'anello al naso o che possimo essere tutti "comprati" ed allineati alle loro esigenze.

Impediamo il disegno di becero sfruttamento avallato dai "nostri" politici di regime.

Lottiamo per imporre scelte di politica energetica alternative al nucleare e la raccolta differenziata al posto degli inceneritori, facciamolo per i nostri figli.

Impediamo che scelte scellerate demoliscano, in nome del Dio denaro, il nostro territorio ed il nostro futuro.
Leggi tutto »


Mentre il ministro Prestigiacomo ed il Governatore Lombardo fanno a gara nel richiedere la costruzione di nuove centrali nucleari in Sicilia, dichiarando ai quattro venti che il nucleare è una tecnologia diffusa e sicura con costi contenuti e rapidi tempi di realizzazione, nel mondo , ormai settimanalmente, i guasti nelle centrali nuclari dimostrano esattamente il contrario......

L'ultima è di ieri, in Belgio, l'ennesimo disastro devastante, ovviamente denunciato in ritardo dalle ( in) competenti autorità...

Ma.....non preoccupatevi,le televisioni di regime non ne parlano, la popolazione ignora questi dati, perciò il problema non esiste....

Dopo il "miracolo della monnezza" di Napoli ed il "miracolo" Alitalia, stà per arrivare un altro "miracolo" del nostro governo....il "miracolo" dell'approvvigionamento energetico tramite il nucleare...

Ovviamente i territori interessati a questi "miracoli"ambientali sono la Napoletania per gli inceneritori ,assolutamente sovradimensionati rispetto alle reali esigenze (scopriremo in futuro il perchè..) e la Sicilia per le centrali nucleari.

Infatti al nord la Lega, forte del successo elettorale ottenuto, non permetterà il compimento di "miracoli"che mettano in pericolo l'ambiente sui territori Padani.....

Il conto di questa miracolistica stagione, forse, non lo pagheremo noi, ma le nuove generazioni ed il territorio.

E' già da tempo che battiamo su questo tasto, la vera emergenza non è il "federalismo fiscale", o meglio non solo, una eventuale pessima legge si può sempre combattere e cambiare.

La vera emergenza, per il Sud, è quella della devastazione ambientale del territorio e del relativo inquinamento che causerà danni inimmaginabili alle future generazioni.

I colonialisti italiani hanno individuato un nuovo filone da sfruttare per i loro guadagni nella " colonia interna meridionale".

Pensano che abbiamo tutti l'anello al naso o che possimo essere tutti "comprati" ed allineati alle loro esigenze.

Impediamo il disegno di becero sfruttamento avallato dai "nostri" politici di regime.

Lottiamo per imporre scelte di politica energetica alternative al nucleare e la raccolta differenziata al posto degli inceneritori, facciamolo per i nostri figli.

Impediamo che scelte scellerate demoliscano, in nome del Dio denaro, il nostro territorio ed il nostro futuro.

Le regole del potere nel regime mediatico


Di Umberto Eco
Repubblica gennaio 2004



"Una settimana fa ricorreva il mio compleanno e, con gli intimi venuti a festeggiarmi, ho rievocato il giorno della mia nascita. Benché dotato di eccellente memoria, quel momento non lo ricordo, ma ho potuto ricostruirlo attraverso i racconti che me ne facevano i miei genitori.Pare dunque che, quando il ginecologo mi ha estratto dal ventre di mia madre, fatte tutte le cose che si debbono fare in tali casi, e presentatole il mirabile risultato delle sue doglie, abbia esclamato: "Guardi che occhi, sembra il Duce!". La mia famiglia non era fascista, così come non era antifascista - come tanta della piccola borghesia italiana prendeva la dittatura come un fatto meteorologico, se piove si esce con l'ombrello - ma certamente per un padre e per una madre sentirsi dire che il neonato aveva gli occhi del Duce era una bella emozione.
Ora, fatto scettico dagli anni, inclino a credere che quel buon ginecologo dicesse la stessa cosa a ogni madre e a ogni padre - e guardandomi nello specchio mi scopro piuttosto simile a un grizzly che non al Duce, ma non importa.
I miei erano stati felici di apprendere che assomigliassi al Duce.
Mi chiedo che cosa potrebbe dire un ginecologo adulatore oggi a una puerpera. Che il prodotto della sua gestazione assomiglia a Berlusconi?
La piomberebbe in uno stato depressivo preoccupante.
Per par condicio, assumo che nessun ginecologo sensibile direbbe alla puerpera che suo figlio appare paffuto come Fassino, simpatico come Schifani, bello come La Russa, intelligente come Bossi, o fresco come Prodi.
Il ginecologo avveduto direbbe piuttosto che il neonato ha gli occhi penetranti di Bruno Vespa, l'aria arguta di Bonolis, il sorriso di Christian De Sica (e non dirà che è bello come Boldi, spavaldo come Fantozzi, o - trattandosi di femmina - sexy come Sconsolata).Ogni epoca ha i suoi miti.
L'epoca in cui sono nato aveva come mito l'Uomo di Stato, quella in cui si nasce oggi ha come mito l'Uomo di Televisione.
Con la consueta cecità della cultura di sinistra, si è intesa l'affermazione di Berlusconi (che i giornali non li legge nessuno mentre tutti vedono la televisione) come l'ultima delle sue gaffes insultanti.
Non lo era, era un atto di arroganza, ma non una stupidaggine. Mettendo insieme tutte le tirature dei giornali italiani si raggiunge una cifra abbastanza derisoria rispetto a quella di coloro che guardano solo la televisione.
Calcolando inoltre che solo una parte della stampa italiana conduce ancora una critica del governo in carica, e che l'intera televisione, Rai più Mediaset, è diventata la voce del potere, Berlusconi aveva sacrosantamente ragione.
Il problema è controllare la televisione, e i giornali dicano quel che vogliono. Questo è un dato di fatto, ci piaccia o non ci piaccia, e i dati di fatto sono tali proprio perché sono indipendenti dalle nostre preferenze (ti è morto il gatto? è morto, ti piaccia o no). Sono partito da queste premesse per suggerire che nel nostro tempo, se dittatura ha da esserci, deve essere dittatura mediatica e non politica. È quasi cinquant'anni che si scriveva che nel mondo contemporaneo, salvo alcuni remoti Paesi del terzo mondo, per fare un colpo di stato non era più necessario allineare carri armati ma bastava occupare le stazioni radiotelevisive (l'ultimo a non essersene accorto è Bush, leader terzomondista arrivato per sbaglio a governare un Paese ad alto tasso di sviluppo).
Ora il teorema è dimostrato.
Per cui è sbagliato dire che non si può parlare di "regime" berlusconiano perché la parola "regime" evoca il regime fascista, e il regime in cui viviamo non ha le caratteristiche di quello del ventennio.
Un regime è una forma di governo, non necessariamente fascista. Il fascismo metteva i ragazzi (e gli adulti) in divisa, eliminava la libertà di stampa e mandava i dissidenti al confino. Il regime mediatico berlusconiano non è così rozzo e antiquato. Sa che si controlla il consenso controllando i mezzi d'informazione più pervasivi. Per il resto non costa niente permettere a molti giornali (sino a che non li si possano acquistare) di dissentire.
A che cosa serve mandare Biagi al confino, per farne magari un eroe?
Basta non lasciarlo più parlare alla televisione.
La differenza tra un regime "alla fascista" e un regime mediatico è che in un regime alla fascista la gente sapeva che i giornali e la radio comunicavano solo veline governative, e che non si poteva ascoltare Radio Londra, pena la galera. Proprio per questo sotto il fascismo la gente diffidava dei giornali e della radio, ascoltava radio Londra a basso volume, e dava fiducia solo alle notizie che pervenivano per mormorio, bocca bocca, maldicenza.
In un regime mediatico dove, diciamo, il dieci per cento della popolazione ha accesso alla stampa di opposizione, e per il resto riceve notizie da una televisione controllata, da un lato vige la persuasione che il dissenso sia accettato ("ci sono giornali che parlano contro il governo, prova ne sia che Berlusconi se ne lamenta sempre, quindi c'è libertà"), dall'altro l'effetto di realtà che la notizia televisiva produce (se ho notizia di un aereo caduto è vera, tanto è vero che vedo i sandali dei morti galleggiare, e non importa se per caso sono i sandali di un disastro precedente, usati come materiale di repertorio), fa sì che si sappia e si creda solo quello che dice la televisione.
Una televisione controllata dal potere non deve necessariamente censurare le notizie.
Certamente, da parte degli schiavi del potere, appaiono anche tentativi di censura, come il più recente (per fortuna ex post, come dicono quelli che dicono "attimino" e "pole position"), per cui si giudica inammissibile che in una trasmissione televisiva si possa parlare male del capo del governo (dimenticando che in un regime democratico si può e si deve parlare male del capo del governo, altrimenti si è in regime dittatoriale).
Ma questi sono solo i casi più visibili (e, se non fossero tragici, risibili).
Il problema è che si può instaurare un regime mediatico in positivo, avendo l'aria di dire tutto.
Basta sapere come dirlo.
Se nessuna televisione dicesse quel che pensa Fassino sulla legge Tale, tra gli spettatori nascerebbe il sospetto che la televisione taccia qualcosa, perché si sa che da qualche parte esiste un'opposizione.
La televisione di un regime mediatico usa invece quell'artificio retorico che si chiama "concessione".
Facciamo un esempio.
Sulla convenienza di tenere un cane ci sono all' incirca cinquanta ragioni pro e cinquanta ragioni contro.
Le ragioni pro sono che il cane è il miglior amico dell'uomo, che può abbaiare se vengono i ladri, che sarebbe adorato dai bambini, eccetera.
Le ragioni contro sono che bisogna portarlo ogni giorno a fare i suoi bisogni, che costa in cibo e veterinario, che è difficile portarlo con sé in viaggio e così via. Ammesso che si voglia parlare in favore dei cani, l'artificio della concessione è:
"È vero che i cani costano, che rappresentano una schiavitù, che non si possono portare i viaggio" (e gli avversari dei cani vengono conquistati dalla nostra onestà), "ma occorre ricordare che sono una bellissima compagnia, adorati dai bambini, attenti contro i ladri eccetera".
Questa sarebbe un'argomentazione persuasiva in favore dei cani.
Contro i cani si potrebbe concedere che è vero che cani sono una compagnia deliziosa, che sono adorati dei bambini, che ci difendono dai ladri, ma dovrebbe seguire l'argomentazione opposta, che i cani però rappresentano una schiavitù, una spesa, un impaccio per i viaggi.
E questa sarebbe un'argomentazione persuasiva contro i cani.
La televisione procede in questo modo.
Se si discute della legge Tale, la si enuncia poi si dà subito la parola all'opposizione, con tutte le sue argomentazioni.
Quindi seguono i sostenitori del governo che obiettano alle obiezioni.
Il risultato persuasivo è scontato: ha ragione chi parla per ultimo.
Seguite con attenzione tutti i telegiornali, e vedrete che la strategia è questa:
mai che dopo l'enunciazione del progetto seguano prima i sostegni governativi e dopo le obiezioni dell'opposizione.
Sempre il contrario.
Un regime mediatico non ha bisogno di mandare in galera gli oppositori.
Li riduce al silenzio, più che con la censura facendo sentire le loro ragioni per prime.
Come si reagisce a un regime mediatico, visto che per reagirvi bisognerebbe avere quell'accesso ai media che il regime mediatico appunto controlla?
Sino a che l'opposizione, in Italia, non saprà trovare una soluzione a questo problema e continuerà a dilettarsi di contrasti interni, Berlusconi sarà il vincitore, piaccia o non piaccia."
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Di Umberto Eco
Repubblica gennaio 2004



"Una settimana fa ricorreva il mio compleanno e, con gli intimi venuti a festeggiarmi, ho rievocato il giorno della mia nascita. Benché dotato di eccellente memoria, quel momento non lo ricordo, ma ho potuto ricostruirlo attraverso i racconti che me ne facevano i miei genitori.Pare dunque che, quando il ginecologo mi ha estratto dal ventre di mia madre, fatte tutte le cose che si debbono fare in tali casi, e presentatole il mirabile risultato delle sue doglie, abbia esclamato: "Guardi che occhi, sembra il Duce!". La mia famiglia non era fascista, così come non era antifascista - come tanta della piccola borghesia italiana prendeva la dittatura come un fatto meteorologico, se piove si esce con l'ombrello - ma certamente per un padre e per una madre sentirsi dire che il neonato aveva gli occhi del Duce era una bella emozione.
Ora, fatto scettico dagli anni, inclino a credere che quel buon ginecologo dicesse la stessa cosa a ogni madre e a ogni padre - e guardandomi nello specchio mi scopro piuttosto simile a un grizzly che non al Duce, ma non importa.
I miei erano stati felici di apprendere che assomigliassi al Duce.
Mi chiedo che cosa potrebbe dire un ginecologo adulatore oggi a una puerpera. Che il prodotto della sua gestazione assomiglia a Berlusconi?
La piomberebbe in uno stato depressivo preoccupante.
Per par condicio, assumo che nessun ginecologo sensibile direbbe alla puerpera che suo figlio appare paffuto come Fassino, simpatico come Schifani, bello come La Russa, intelligente come Bossi, o fresco come Prodi.
Il ginecologo avveduto direbbe piuttosto che il neonato ha gli occhi penetranti di Bruno Vespa, l'aria arguta di Bonolis, il sorriso di Christian De Sica (e non dirà che è bello come Boldi, spavaldo come Fantozzi, o - trattandosi di femmina - sexy come Sconsolata).Ogni epoca ha i suoi miti.
L'epoca in cui sono nato aveva come mito l'Uomo di Stato, quella in cui si nasce oggi ha come mito l'Uomo di Televisione.
Con la consueta cecità della cultura di sinistra, si è intesa l'affermazione di Berlusconi (che i giornali non li legge nessuno mentre tutti vedono la televisione) come l'ultima delle sue gaffes insultanti.
Non lo era, era un atto di arroganza, ma non una stupidaggine. Mettendo insieme tutte le tirature dei giornali italiani si raggiunge una cifra abbastanza derisoria rispetto a quella di coloro che guardano solo la televisione.
Calcolando inoltre che solo una parte della stampa italiana conduce ancora una critica del governo in carica, e che l'intera televisione, Rai più Mediaset, è diventata la voce del potere, Berlusconi aveva sacrosantamente ragione.
Il problema è controllare la televisione, e i giornali dicano quel che vogliono. Questo è un dato di fatto, ci piaccia o non ci piaccia, e i dati di fatto sono tali proprio perché sono indipendenti dalle nostre preferenze (ti è morto il gatto? è morto, ti piaccia o no). Sono partito da queste premesse per suggerire che nel nostro tempo, se dittatura ha da esserci, deve essere dittatura mediatica e non politica. È quasi cinquant'anni che si scriveva che nel mondo contemporaneo, salvo alcuni remoti Paesi del terzo mondo, per fare un colpo di stato non era più necessario allineare carri armati ma bastava occupare le stazioni radiotelevisive (l'ultimo a non essersene accorto è Bush, leader terzomondista arrivato per sbaglio a governare un Paese ad alto tasso di sviluppo).
Ora il teorema è dimostrato.
Per cui è sbagliato dire che non si può parlare di "regime" berlusconiano perché la parola "regime" evoca il regime fascista, e il regime in cui viviamo non ha le caratteristiche di quello del ventennio.
Un regime è una forma di governo, non necessariamente fascista. Il fascismo metteva i ragazzi (e gli adulti) in divisa, eliminava la libertà di stampa e mandava i dissidenti al confino. Il regime mediatico berlusconiano non è così rozzo e antiquato. Sa che si controlla il consenso controllando i mezzi d'informazione più pervasivi. Per il resto non costa niente permettere a molti giornali (sino a che non li si possano acquistare) di dissentire.
A che cosa serve mandare Biagi al confino, per farne magari un eroe?
Basta non lasciarlo più parlare alla televisione.
La differenza tra un regime "alla fascista" e un regime mediatico è che in un regime alla fascista la gente sapeva che i giornali e la radio comunicavano solo veline governative, e che non si poteva ascoltare Radio Londra, pena la galera. Proprio per questo sotto il fascismo la gente diffidava dei giornali e della radio, ascoltava radio Londra a basso volume, e dava fiducia solo alle notizie che pervenivano per mormorio, bocca bocca, maldicenza.
In un regime mediatico dove, diciamo, il dieci per cento della popolazione ha accesso alla stampa di opposizione, e per il resto riceve notizie da una televisione controllata, da un lato vige la persuasione che il dissenso sia accettato ("ci sono giornali che parlano contro il governo, prova ne sia che Berlusconi se ne lamenta sempre, quindi c'è libertà"), dall'altro l'effetto di realtà che la notizia televisiva produce (se ho notizia di un aereo caduto è vera, tanto è vero che vedo i sandali dei morti galleggiare, e non importa se per caso sono i sandali di un disastro precedente, usati come materiale di repertorio), fa sì che si sappia e si creda solo quello che dice la televisione.
Una televisione controllata dal potere non deve necessariamente censurare le notizie.
Certamente, da parte degli schiavi del potere, appaiono anche tentativi di censura, come il più recente (per fortuna ex post, come dicono quelli che dicono "attimino" e "pole position"), per cui si giudica inammissibile che in una trasmissione televisiva si possa parlare male del capo del governo (dimenticando che in un regime democratico si può e si deve parlare male del capo del governo, altrimenti si è in regime dittatoriale).
Ma questi sono solo i casi più visibili (e, se non fossero tragici, risibili).
Il problema è che si può instaurare un regime mediatico in positivo, avendo l'aria di dire tutto.
Basta sapere come dirlo.
Se nessuna televisione dicesse quel che pensa Fassino sulla legge Tale, tra gli spettatori nascerebbe il sospetto che la televisione taccia qualcosa, perché si sa che da qualche parte esiste un'opposizione.
La televisione di un regime mediatico usa invece quell'artificio retorico che si chiama "concessione".
Facciamo un esempio.
Sulla convenienza di tenere un cane ci sono all' incirca cinquanta ragioni pro e cinquanta ragioni contro.
Le ragioni pro sono che il cane è il miglior amico dell'uomo, che può abbaiare se vengono i ladri, che sarebbe adorato dai bambini, eccetera.
Le ragioni contro sono che bisogna portarlo ogni giorno a fare i suoi bisogni, che costa in cibo e veterinario, che è difficile portarlo con sé in viaggio e così via. Ammesso che si voglia parlare in favore dei cani, l'artificio della concessione è:
"È vero che i cani costano, che rappresentano una schiavitù, che non si possono portare i viaggio" (e gli avversari dei cani vengono conquistati dalla nostra onestà), "ma occorre ricordare che sono una bellissima compagnia, adorati dai bambini, attenti contro i ladri eccetera".
Questa sarebbe un'argomentazione persuasiva in favore dei cani.
Contro i cani si potrebbe concedere che è vero che cani sono una compagnia deliziosa, che sono adorati dei bambini, che ci difendono dai ladri, ma dovrebbe seguire l'argomentazione opposta, che i cani però rappresentano una schiavitù, una spesa, un impaccio per i viaggi.
E questa sarebbe un'argomentazione persuasiva contro i cani.
La televisione procede in questo modo.
Se si discute della legge Tale, la si enuncia poi si dà subito la parola all'opposizione, con tutte le sue argomentazioni.
Quindi seguono i sostenitori del governo che obiettano alle obiezioni.
Il risultato persuasivo è scontato: ha ragione chi parla per ultimo.
Seguite con attenzione tutti i telegiornali, e vedrete che la strategia è questa:
mai che dopo l'enunciazione del progetto seguano prima i sostegni governativi e dopo le obiezioni dell'opposizione.
Sempre il contrario.
Un regime mediatico non ha bisogno di mandare in galera gli oppositori.
Li riduce al silenzio, più che con la censura facendo sentire le loro ragioni per prime.
Come si reagisce a un regime mediatico, visto che per reagirvi bisognerebbe avere quell'accesso ai media che il regime mediatico appunto controlla?
Sino a che l'opposizione, in Italia, non saprà trovare una soluzione a questo problema e continuerà a dilettarsi di contrasti interni, Berlusconi sarà il vincitore, piaccia o non piaccia."

sabato 30 agosto 2008

La solita Italia....


Tratto da Effedieffe:

Nella primavera del 1941, l’Italia, in una serie di disfatte, aveva perduto la Cirenaica, e gli inglesi avanzavano verso Tripoli. Hitler, che fino ad allora aveva considerato la guerra d’Africa un settore da lasciare agli italiani, mandò in aiuto degli alleati l’AfrikaKorps, al comando di Rommel: «La decisione», scrisse il generale tedesco Eckart Christian, «non fu basata su un piano strategico, ma sulla necessità di sostenere la posizione italiana nel Mediterraneo». Insomma, lo scopo era di evitare una cocente umiliazione al duce. Nel novembre del ‘41 il Fuehrer mandò a Roma il feldmaresciallo Albert Kesserling come comandante del settore Sud, ma in realtà perché, come scrisse lo stesso Kesserling, «il sistema di rifornimenti all’Afrika Korps - che spettava agli italiani - era collassato. Il dominio britannico del cielo e del mare sul Mediterraneo era sempre più evidente… La posizione di Rommel era critica… Egli era intralciato nelle operazioni dalla presenza di divisioni di fanteria, e specialmente dalle divisioni italiane di bassissima efficienza combattiva».In una guerra del deserto, completamente motorizzata e combattuta con i carri armati, noi avevamo fanti appiedati, che non erano altro che una patetica palla al piede. Questo indusse Kesselring a indagare e riflette su questa incapacità militare dell’alleato. Ciò che descrisse nei suoi rapporti, con equanimità e anche generosità, ci restituisce un ritratto veritiero dell’Italia d’oggi, dell’Italia di sempre.
Ecco alcuni passi dei ricordi di Kesselring: «Le forze armate italiane in genere non erano preparate alla guerra. Ma anziché prendere coscienza ella realtà com’era, il Comando Italiano (…) si cullava in vane speranze. L’aiuto tedesco è stato richiesto nella quantità necessaria solo quando era troppo tardi, e quando l’aiuto non era più in proporzione con lo sforzo fatto. Ho l’impressione che questa riluttanza nascesse da vanità e una falsa idea del prestigio delle forze armate italiane. Ma poco prima delle defezione italiana, il generale Ambrosio, ultimo capo dello Stato Maggiore, cambiò tattica, aumentando le richieste di truppe e materiali a così insensati livelli, da far capire le disoneste intenzioni seguenti».
I generali italioti credevano di essere furbi; la classe dirigente si preparava a tradire l’alleato, a rubargli intanto materiali, e credeva che questo non se ne accorgesse.
Ancora: «Il soldato italiano non può essere paragonato al soldato tedesco. L’addestramento, di per sé insufficiente, viene condotto come in tempo di pace, nei cortili delle caserme; l’addestramento sul campo era tralasciato. Manca ogni contatto tra gli ufficiali e gli uomini. (…) Non ci sono abbastanza unità motorizzate. I carri armati non hanno sufficiente protezione anticarro. Il loro armamento è insoddisfacente. Le armi anticarro erano manchevoli in quantità e inefficaci. Le armi della fanteria erano inadeguate. L’artigliera era di qualità, ma non adatta alle azioni contro gli alleati perché di gittata insufficiente. Le comunicazioni radio non erano adeguatamenet sviluppate. Le forniture erano insufficienti, a cominciare delle razioni. (…) I problemi dell’accaparramento, del soccorso e delle razioni alimentari avevano un effetto distruttivo sul morale».
Poiché i gallonati italiani non risucivano a mandare le forniture necessarie nella vicina Libia,Kesselring prese il comando della logistica. Ma le navi di cui doveva servirsi erano pur sempre italiane. «Flotta da tempo buono», la chiama.
E annota: «C’era una certa riluttanza italiana a rischiare la perdita i navi, forse nella speranza di preservare la flotta (mercantile) per la sospirata pace. Sicchè la flotta mercantile non fu mai attrezzata per lo stato i guerra. Di fatto, la nazione italiana non si è mai sentita obbligata a mobilitarsi totalmente per la guerra, né in forza-lavoro nè nell’industria… Non si può aspettarsi la vittoria quando l’azione è dominata dalla paura di perdite».
Ancora: «Il soldato semplice riceve, anche in battaglia, razioni completamente diverse da quelle che ricevono gli ufficiali intermedi e superiori. La misura delle razioni è moltiplicata secondo il grado, e la copiosità significa anche una scelta migliore di cibo di buona qualità. Secondo il loro grado, gli ufficiali mangiano tanto più abbondantemente e bene. Al soldato semplice va la razione più frugale; se fosse sufficiente, gli ufficiali non avrebbero ovviamente bisogno di una razione doppia o anche tripla di quella. Gli ufficiali mangiano in mense a parte, senza contatto coi loro uomini e spesso senza sapere cosa questi ricevono. Così il cameratismo di guerra, ciò che forma la comunità di vita e di morte così necessaria, era spezzata. Ho visto personalmente che le mense da campo tedesche erano praticamente assediate da soldati italiani, mentre io mangiavo straordinariamente bene con la razione normale dell’ufficiale italiano, alla mensa-ufficiali».
Non è la stessa cosa anche oggi? Non è sempre la stessa casta, vanitosa e incompetente, che si riempie il piattro tre volte mentre il soldato semplice della repubblica fa la fame? Anzi peggio: oggi l’italiano comune si ritiene fortunato se trova un lavoro a 1.100 euro, mentre per la casta politica è normale prenderne 22 mila.
Ma ridiamo la parola a Kesserling: «Non ho mai avuto l’impressione che la popolazione avesse coscienza dall’inizio che stava combattendo per la sua stessa esistenza; ne è diventata cosciente solo nel corso della guerra, quando ha dovuto subire i bombardamenti e ha perso le sue colonie… E tuttavia, non potrò mai dimenticare l’impressione di dolce vita che Roma fece su di me nei giorni delle battaglie per le teste di ponte di Anzio-Nettuno, che infuriavano nelle vicinanze».
Non si creda però che Kesselring abbia pregiudizi contro gli italiani in genere, e disprezzo totale verso i soldati italiani. Anzi scrive: «Ho visto troppi atti eroici compiuti da unità e individui italiani, come la Divisione Folgore a El Alamein, l’artiglieria nelle battaglie tunisine, le piccole armi della Marina (e cita la Decima Mas e i suoi sommozzatori a cavallo dei maiali, che distrussero da soli un quarto del naviglio britannico perso nel Medirettaneo), gli equipaggi dei barchini esplosivi, eccetera, per non esprimere la mia stima con convinzione. Ma in guerra, il risultato non è dato dagli atti eroici di pochi individui, ma dal grado di addestramento e di morale delle intere forze armate».
E’ così anche oggi. Una massa passiva e tendente all’imboscamento, una casta vanitosa incapace e insensibile al destino nazionale, e qualche eroe che fa più del proprio dovere: senza riuscire, naturalmente, a cambiare il destino generale del Paese.
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Tratto da Effedieffe:

Nella primavera del 1941, l’Italia, in una serie di disfatte, aveva perduto la Cirenaica, e gli inglesi avanzavano verso Tripoli. Hitler, che fino ad allora aveva considerato la guerra d’Africa un settore da lasciare agli italiani, mandò in aiuto degli alleati l’AfrikaKorps, al comando di Rommel: «La decisione», scrisse il generale tedesco Eckart Christian, «non fu basata su un piano strategico, ma sulla necessità di sostenere la posizione italiana nel Mediterraneo». Insomma, lo scopo era di evitare una cocente umiliazione al duce. Nel novembre del ‘41 il Fuehrer mandò a Roma il feldmaresciallo Albert Kesserling come comandante del settore Sud, ma in realtà perché, come scrisse lo stesso Kesserling, «il sistema di rifornimenti all’Afrika Korps - che spettava agli italiani - era collassato. Il dominio britannico del cielo e del mare sul Mediterraneo era sempre più evidente… La posizione di Rommel era critica… Egli era intralciato nelle operazioni dalla presenza di divisioni di fanteria, e specialmente dalle divisioni italiane di bassissima efficienza combattiva».In una guerra del deserto, completamente motorizzata e combattuta con i carri armati, noi avevamo fanti appiedati, che non erano altro che una patetica palla al piede. Questo indusse Kesselring a indagare e riflette su questa incapacità militare dell’alleato. Ciò che descrisse nei suoi rapporti, con equanimità e anche generosità, ci restituisce un ritratto veritiero dell’Italia d’oggi, dell’Italia di sempre.
Ecco alcuni passi dei ricordi di Kesselring: «Le forze armate italiane in genere non erano preparate alla guerra. Ma anziché prendere coscienza ella realtà com’era, il Comando Italiano (…) si cullava in vane speranze. L’aiuto tedesco è stato richiesto nella quantità necessaria solo quando era troppo tardi, e quando l’aiuto non era più in proporzione con lo sforzo fatto. Ho l’impressione che questa riluttanza nascesse da vanità e una falsa idea del prestigio delle forze armate italiane. Ma poco prima delle defezione italiana, il generale Ambrosio, ultimo capo dello Stato Maggiore, cambiò tattica, aumentando le richieste di truppe e materiali a così insensati livelli, da far capire le disoneste intenzioni seguenti».
I generali italioti credevano di essere furbi; la classe dirigente si preparava a tradire l’alleato, a rubargli intanto materiali, e credeva che questo non se ne accorgesse.
Ancora: «Il soldato italiano non può essere paragonato al soldato tedesco. L’addestramento, di per sé insufficiente, viene condotto come in tempo di pace, nei cortili delle caserme; l’addestramento sul campo era tralasciato. Manca ogni contatto tra gli ufficiali e gli uomini. (…) Non ci sono abbastanza unità motorizzate. I carri armati non hanno sufficiente protezione anticarro. Il loro armamento è insoddisfacente. Le armi anticarro erano manchevoli in quantità e inefficaci. Le armi della fanteria erano inadeguate. L’artigliera era di qualità, ma non adatta alle azioni contro gli alleati perché di gittata insufficiente. Le comunicazioni radio non erano adeguatamenet sviluppate. Le forniture erano insufficienti, a cominciare delle razioni. (…) I problemi dell’accaparramento, del soccorso e delle razioni alimentari avevano un effetto distruttivo sul morale».
Poiché i gallonati italiani non risucivano a mandare le forniture necessarie nella vicina Libia,Kesselring prese il comando della logistica. Ma le navi di cui doveva servirsi erano pur sempre italiane. «Flotta da tempo buono», la chiama.
E annota: «C’era una certa riluttanza italiana a rischiare la perdita i navi, forse nella speranza di preservare la flotta (mercantile) per la sospirata pace. Sicchè la flotta mercantile non fu mai attrezzata per lo stato i guerra. Di fatto, la nazione italiana non si è mai sentita obbligata a mobilitarsi totalmente per la guerra, né in forza-lavoro nè nell’industria… Non si può aspettarsi la vittoria quando l’azione è dominata dalla paura di perdite».
Ancora: «Il soldato semplice riceve, anche in battaglia, razioni completamente diverse da quelle che ricevono gli ufficiali intermedi e superiori. La misura delle razioni è moltiplicata secondo il grado, e la copiosità significa anche una scelta migliore di cibo di buona qualità. Secondo il loro grado, gli ufficiali mangiano tanto più abbondantemente e bene. Al soldato semplice va la razione più frugale; se fosse sufficiente, gli ufficiali non avrebbero ovviamente bisogno di una razione doppia o anche tripla di quella. Gli ufficiali mangiano in mense a parte, senza contatto coi loro uomini e spesso senza sapere cosa questi ricevono. Così il cameratismo di guerra, ciò che forma la comunità di vita e di morte così necessaria, era spezzata. Ho visto personalmente che le mense da campo tedesche erano praticamente assediate da soldati italiani, mentre io mangiavo straordinariamente bene con la razione normale dell’ufficiale italiano, alla mensa-ufficiali».
Non è la stessa cosa anche oggi? Non è sempre la stessa casta, vanitosa e incompetente, che si riempie il piattro tre volte mentre il soldato semplice della repubblica fa la fame? Anzi peggio: oggi l’italiano comune si ritiene fortunato se trova un lavoro a 1.100 euro, mentre per la casta politica è normale prenderne 22 mila.
Ma ridiamo la parola a Kesserling: «Non ho mai avuto l’impressione che la popolazione avesse coscienza dall’inizio che stava combattendo per la sua stessa esistenza; ne è diventata cosciente solo nel corso della guerra, quando ha dovuto subire i bombardamenti e ha perso le sue colonie… E tuttavia, non potrò mai dimenticare l’impressione di dolce vita che Roma fece su di me nei giorni delle battaglie per le teste di ponte di Anzio-Nettuno, che infuriavano nelle vicinanze».
Non si creda però che Kesselring abbia pregiudizi contro gli italiani in genere, e disprezzo totale verso i soldati italiani. Anzi scrive: «Ho visto troppi atti eroici compiuti da unità e individui italiani, come la Divisione Folgore a El Alamein, l’artiglieria nelle battaglie tunisine, le piccole armi della Marina (e cita la Decima Mas e i suoi sommozzatori a cavallo dei maiali, che distrussero da soli un quarto del naviglio britannico perso nel Medirettaneo), gli equipaggi dei barchini esplosivi, eccetera, per non esprimere la mia stima con convinzione. Ma in guerra, il risultato non è dato dagli atti eroici di pochi individui, ma dal grado di addestramento e di morale delle intere forze armate».
E’ così anche oggi. Una massa passiva e tendente all’imboscamento, una casta vanitosa incapace e insensibile al destino nazionale, e qualche eroe che fa più del proprio dovere: senza riuscire, naturalmente, a cambiare il destino generale del Paese.

IL NO ALLA DISCARICA DEL FORMICOSO MOTIVATO DAI SINDACI DELL'ALTA IRPINIA


I Sindaci dei Comuni di Andretta, Bisaccia, Cairano, Calitri, Aquilonia, Monteverde, Teora, Conza della Campania, Sant’Andrea di Conza, Lacedonia, Lioni, Vallata, Castel Baronia, Guardia Lombardi, Rocca San Felice, Villamaina, Trevico, Morra De Sanctis, i Presidenti delle Comunità Montane Alta Irpinia e Ufita, il segretario regionale di Legambiente, il Presidente del GAL-CILSI, gli Amministratori dell’Irpinia, RIBADISCONO il più deciso

NO
all’ipotesi di costruzione di un’altra discarica nel proprio territorio, nel Comune di Andretta, così come previsto dal Decreto Legge N.90 del 23/05/2008 convertito in legge 123/08 per le seguenti ragioni:

Si tratta della Provincia che più si è attivata per avere un’impiantisca per il recupero ed il trattamento dei Rifiuti;

ha già ospitato in passato la discarica di Difesa Grande (Ariano Irpino) e, dal mese di Giugno scorso, ha accolto a Savignano Irpino, un’altra discarica per Rifiuti Solidi Urbani provenienti da tutta la Regione Campania;

ospita impianti di Compostaggio della frazione organica, pubblici e privati (Teora e Bisaccia);

ha in funzione una Stazione di Trasferenza di RSU (Flumeri);

si appresta a far entrare in funzione un impianto di valorizzazione della frazione secca (Montella);

ospita uno dei 7 impianti di CDR (Pianodardine);

raggiunge già percentuali di circa il 40% di Raccolta Differenziata con punte, in particolare nei paesi alto-irpini interessati dalla ipotizzata realizzazione della discarica di Pero Spaccone, di percentuali pari al 80%, pur producendo solo una parte minima (5/6 %) sul totale regionale;

Gli Amministratori di questo territorio hanno speso energie progettuali per fare della sua vocazione ambientale e della sua natura incontaminata la maggiore risorsa per il futuro:

utilizzando tutti gli strumenti locali, regionali, nazionali e comunitari della Programmazione Negoziata (POR; PIT, PIR; Patti Territoriali, LEADER II e Plus, Parco Letterario Francesco De Sanctis….) per dare concretezza all’idea di Sviluppo Locale eco-compatibile;

valorizzando le produzioni agricole, dal grano (che proprio nell’area fra Andretta e Bisaccia fa vivere migliaia di aziende agricole familiari) alla carne (agnello del Formicoso e vitello dell’Appennino di grande pregio) all’olio della Valle dell’Ufita, ai vini DOCG famosi nel mondo, al latte (la Regione Campania ha investito 4 milioni di euro per la Formaggioteca a Calitri, per fare un solo esempio) ed attivando Progetti di Filiera di tali prodotti di eccellenza;

fornendo a molte aziende casearie campane (da Salerno a Caserta a Napoli) l’alimento principe, il fieno pregiato del Formicoso, degli allevamenti bufalini e consentendo a tanti produttori di mozzarella di bufala di arginare gli effetti della crisi drammatica dell’emergenza rifiuti;

accettando sul territorio, talvolta in contrasto con le popolazioni, un gran numero di impianti eolici (che contribuiscono al fabbisogno dell’intera regione) ed una Stazione di trasformazione dell’energia per l’immissione nella rete elettrica a 380 mila Volt gestita dalla Società TERNA (a pochi metri dal sito di Andretta) che costituisce un nodo importante della rete nazionale, pur avendo essi un carattere invasivo e di aggressione al territorio;

attivando gli strumenti della Programmazione Regionale per l’istituzione del Distretto Energetico, già firmato dal Sindaco del Comune di Bisaccia, che è capofila, con l’Assessore Cozzolino e che consentirà all’intero comprensorio di puntare alla creazione di un polo di eccellenza nel campo delle fonti rinnovabili che possa dare ai giovani prospettive future.

Ritengono

che il territorio irpino ha già subito effetti devastanti a seguito del terremoto del 1980 e vive in modo drammatico processi migratori di fuga delle energie migliori, i giovani laureati sui quali le famiglie investono risorse ingenti che non ripagano le aspettative di speranza in un futuro migliore;
di non doversi sottrarre, come hanno già fatto in passato, all’assunzione di responsabilità e sono fermamente convinti che altre soluzioni sono possibili per avviare finalmente la gestione ordinaria del ciclo dei rifiuti, attraverso l’attivazione di percorsi virtuosi:

riducendo i rifiuti a monte;
potenziando subito la raccolta differenziata e gli impianti decentrati e diffusi di compostaggio;
adeguando velocemente gli attuali 7 impianti di CDR, facendoli diventare selezionatori di rifiuti e dotandoli di vasche per la produzione di compost.

In particolare, per la Provincia di Avellino,

sostengono
la necessità di un rapido adeguamento nel senso suddetto dell’impianto di CDR di Pianodardine, affidandone la gestione ad un Commissario ad acta o ai Consorzi, in direzione del funzionamento come impianto di trattamento meccanico e biologico dei rifiuti indifferenziati;
la non differibilità della provincializzazione prevista dalla Legge Regionale e imposta dalle Direttive dell’Unione Europea, seconde le quali i rifiuti vanno trattati nei luoghi dove vengono prodotti e i materiali vanno recuperati prima di avviare a discarica le frazioni residue;

dichiarano

la disponibilità a farsi carico degli oneri necessari per la ristrutturazione nel senso detto dell’impianto di CDR di Pianodardine;
la volontà di collaborazione piena con la struttura che fa capo al Sottosegretario Guido Bertolaso per la rapida attuazione di tale percorso;
l’accettazione, in spirito solidale con gli altri territori della Regione Campania, di quantità di rifiuti solidi urbani da trattare negli impianti presenti, compatibilmente con le capacità degli stessi;

che il rifiuto del dialogo da parte dei rappresentanti dello Stato ai più alti livelli finirebbe solo per acuire la frattura con i cittadini, ponendo seri problemi di tenuta democratica del Paese;
che stanno valutando la possibilità di intraprendere iniziative di separazione dall’Istituzione regionale campana, vissuta come un’entità lontana dalle esigenze e dalle sensibilità dei territori amministrati;

la determinazione a costituirsi in seduta permanente dei Sindaci della Provincia di Avellino, a intraprendere tutte le iniziative legali a tutela della integrità del territorio irpino e ad opporsi, insieme con i cittadini tutti dell’Irpinia, con ogni mezzo, a costo di mettere a rischio la propria vita, perché la storia della “terra dell’osso” e le proprie aspettative future non siano calpestate dalla discarica ipotizzata dal Governo nel territorio che è il polmone verde della Campania!

Deliberano

di impegnare tutti i Parlamentari eletti nel territorio provinciale ad intraprendere ogni iniziativa di sostegno all’azione delle comunità locali volta a scongiurare la costruzione della terza discarica in Provincia di Avellino e per rendere il più rapido possibile il processo di provincializzazione della gestione del ciclo dei Rifiuti Solidi Urbani;

la costituzione di un tavolo istituzionale permanente per la difesa dell’Irpinia dagli attacchi che mirano a pregiudicare il proprio sviluppo in linea con gli indirizzi ed il sostegno, già in corso, dell’Unione Europea;

di chiedere al Sottosegretario Guido Bertolaso di prendere parte al tavolo istituzionale per favorire un confronto sereno con le comunità locali, per una constatazione”de visu” del territorio irpino e delle sue risorse, in coordinamento con gli intendimenti dell’Unione Europea, della Regione Campania e dell’Amministrazione Provinciale, sia sul tema di una gestione virtuosa dei rifiuti, sia per la tutela complessiva del territorio;

di impegnare il Sottosegretariato di Stato per l’emergenza rifiuti in Campania ad adottare criteri di intervento di contemporaneità conoscitiva per rilievi, sondaggi, verifiche tecniche su tutti i siti indicati all’art. 9 del DL 90/08 convertito in Legge n. 123/08.

PS: Hanno aderito al documento l’Associazione dei Comuni della Podolica, le segreterie provinciali di tutti i partiti e dei sindacati.Documento sottoscritto da 25 Sindaci, due Presidenti di Comunità Montane (Alta Irpinia ed Ufita), Legambiente Campania, segreterie provinciali di tutti i partiti, GAL-Verde Irpinia-CILSI e Sindacati
iocolibri.it
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I Sindaci dei Comuni di Andretta, Bisaccia, Cairano, Calitri, Aquilonia, Monteverde, Teora, Conza della Campania, Sant’Andrea di Conza, Lacedonia, Lioni, Vallata, Castel Baronia, Guardia Lombardi, Rocca San Felice, Villamaina, Trevico, Morra De Sanctis, i Presidenti delle Comunità Montane Alta Irpinia e Ufita, il segretario regionale di Legambiente, il Presidente del GAL-CILSI, gli Amministratori dell’Irpinia, RIBADISCONO il più deciso

NO
all’ipotesi di costruzione di un’altra discarica nel proprio territorio, nel Comune di Andretta, così come previsto dal Decreto Legge N.90 del 23/05/2008 convertito in legge 123/08 per le seguenti ragioni:

Si tratta della Provincia che più si è attivata per avere un’impiantisca per il recupero ed il trattamento dei Rifiuti;

ha già ospitato in passato la discarica di Difesa Grande (Ariano Irpino) e, dal mese di Giugno scorso, ha accolto a Savignano Irpino, un’altra discarica per Rifiuti Solidi Urbani provenienti da tutta la Regione Campania;

ospita impianti di Compostaggio della frazione organica, pubblici e privati (Teora e Bisaccia);

ha in funzione una Stazione di Trasferenza di RSU (Flumeri);

si appresta a far entrare in funzione un impianto di valorizzazione della frazione secca (Montella);

ospita uno dei 7 impianti di CDR (Pianodardine);

raggiunge già percentuali di circa il 40% di Raccolta Differenziata con punte, in particolare nei paesi alto-irpini interessati dalla ipotizzata realizzazione della discarica di Pero Spaccone, di percentuali pari al 80%, pur producendo solo una parte minima (5/6 %) sul totale regionale;

Gli Amministratori di questo territorio hanno speso energie progettuali per fare della sua vocazione ambientale e della sua natura incontaminata la maggiore risorsa per il futuro:

utilizzando tutti gli strumenti locali, regionali, nazionali e comunitari della Programmazione Negoziata (POR; PIT, PIR; Patti Territoriali, LEADER II e Plus, Parco Letterario Francesco De Sanctis….) per dare concretezza all’idea di Sviluppo Locale eco-compatibile;

valorizzando le produzioni agricole, dal grano (che proprio nell’area fra Andretta e Bisaccia fa vivere migliaia di aziende agricole familiari) alla carne (agnello del Formicoso e vitello dell’Appennino di grande pregio) all’olio della Valle dell’Ufita, ai vini DOCG famosi nel mondo, al latte (la Regione Campania ha investito 4 milioni di euro per la Formaggioteca a Calitri, per fare un solo esempio) ed attivando Progetti di Filiera di tali prodotti di eccellenza;

fornendo a molte aziende casearie campane (da Salerno a Caserta a Napoli) l’alimento principe, il fieno pregiato del Formicoso, degli allevamenti bufalini e consentendo a tanti produttori di mozzarella di bufala di arginare gli effetti della crisi drammatica dell’emergenza rifiuti;

accettando sul territorio, talvolta in contrasto con le popolazioni, un gran numero di impianti eolici (che contribuiscono al fabbisogno dell’intera regione) ed una Stazione di trasformazione dell’energia per l’immissione nella rete elettrica a 380 mila Volt gestita dalla Società TERNA (a pochi metri dal sito di Andretta) che costituisce un nodo importante della rete nazionale, pur avendo essi un carattere invasivo e di aggressione al territorio;

attivando gli strumenti della Programmazione Regionale per l’istituzione del Distretto Energetico, già firmato dal Sindaco del Comune di Bisaccia, che è capofila, con l’Assessore Cozzolino e che consentirà all’intero comprensorio di puntare alla creazione di un polo di eccellenza nel campo delle fonti rinnovabili che possa dare ai giovani prospettive future.

Ritengono

che il territorio irpino ha già subito effetti devastanti a seguito del terremoto del 1980 e vive in modo drammatico processi migratori di fuga delle energie migliori, i giovani laureati sui quali le famiglie investono risorse ingenti che non ripagano le aspettative di speranza in un futuro migliore;
di non doversi sottrarre, come hanno già fatto in passato, all’assunzione di responsabilità e sono fermamente convinti che altre soluzioni sono possibili per avviare finalmente la gestione ordinaria del ciclo dei rifiuti, attraverso l’attivazione di percorsi virtuosi:

riducendo i rifiuti a monte;
potenziando subito la raccolta differenziata e gli impianti decentrati e diffusi di compostaggio;
adeguando velocemente gli attuali 7 impianti di CDR, facendoli diventare selezionatori di rifiuti e dotandoli di vasche per la produzione di compost.

In particolare, per la Provincia di Avellino,

sostengono
la necessità di un rapido adeguamento nel senso suddetto dell’impianto di CDR di Pianodardine, affidandone la gestione ad un Commissario ad acta o ai Consorzi, in direzione del funzionamento come impianto di trattamento meccanico e biologico dei rifiuti indifferenziati;
la non differibilità della provincializzazione prevista dalla Legge Regionale e imposta dalle Direttive dell’Unione Europea, seconde le quali i rifiuti vanno trattati nei luoghi dove vengono prodotti e i materiali vanno recuperati prima di avviare a discarica le frazioni residue;

dichiarano

la disponibilità a farsi carico degli oneri necessari per la ristrutturazione nel senso detto dell’impianto di CDR di Pianodardine;
la volontà di collaborazione piena con la struttura che fa capo al Sottosegretario Guido Bertolaso per la rapida attuazione di tale percorso;
l’accettazione, in spirito solidale con gli altri territori della Regione Campania, di quantità di rifiuti solidi urbani da trattare negli impianti presenti, compatibilmente con le capacità degli stessi;

che il rifiuto del dialogo da parte dei rappresentanti dello Stato ai più alti livelli finirebbe solo per acuire la frattura con i cittadini, ponendo seri problemi di tenuta democratica del Paese;
che stanno valutando la possibilità di intraprendere iniziative di separazione dall’Istituzione regionale campana, vissuta come un’entità lontana dalle esigenze e dalle sensibilità dei territori amministrati;

la determinazione a costituirsi in seduta permanente dei Sindaci della Provincia di Avellino, a intraprendere tutte le iniziative legali a tutela della integrità del territorio irpino e ad opporsi, insieme con i cittadini tutti dell’Irpinia, con ogni mezzo, a costo di mettere a rischio la propria vita, perché la storia della “terra dell’osso” e le proprie aspettative future non siano calpestate dalla discarica ipotizzata dal Governo nel territorio che è il polmone verde della Campania!

Deliberano

di impegnare tutti i Parlamentari eletti nel territorio provinciale ad intraprendere ogni iniziativa di sostegno all’azione delle comunità locali volta a scongiurare la costruzione della terza discarica in Provincia di Avellino e per rendere il più rapido possibile il processo di provincializzazione della gestione del ciclo dei Rifiuti Solidi Urbani;

la costituzione di un tavolo istituzionale permanente per la difesa dell’Irpinia dagli attacchi che mirano a pregiudicare il proprio sviluppo in linea con gli indirizzi ed il sostegno, già in corso, dell’Unione Europea;

di chiedere al Sottosegretario Guido Bertolaso di prendere parte al tavolo istituzionale per favorire un confronto sereno con le comunità locali, per una constatazione”de visu” del territorio irpino e delle sue risorse, in coordinamento con gli intendimenti dell’Unione Europea, della Regione Campania e dell’Amministrazione Provinciale, sia sul tema di una gestione virtuosa dei rifiuti, sia per la tutela complessiva del territorio;

di impegnare il Sottosegretariato di Stato per l’emergenza rifiuti in Campania ad adottare criteri di intervento di contemporaneità conoscitiva per rilievi, sondaggi, verifiche tecniche su tutti i siti indicati all’art. 9 del DL 90/08 convertito in Legge n. 123/08.

PS: Hanno aderito al documento l’Associazione dei Comuni della Podolica, le segreterie provinciali di tutti i partiti e dei sindacati.Documento sottoscritto da 25 Sindaci, due Presidenti di Comunità Montane (Alta Irpinia ed Ufita), Legambiente Campania, segreterie provinciali di tutti i partiti, GAL-Verde Irpinia-CILSI e Sindacati
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′Ndrangheta - Il riscatto della Locride guidato dalle donne




«Da dove nasce tanta violenza? - si chiede il narratore del documentario
-. Dov′è il luogo che genera questo potere che sembra invincibile?
"E′ a San Luca" - ci dicono - "Sull′Aspromonte".
Qui c′è l′epicentro mondiale della ′ndrangheta. Da qui partono gli ordini.

In queste case brutte e anonime ci sono uomini in grado di comunicare con i più lontani angoli del pianeta. In sperduti casolari nascosti dai boschi, dall′apparenza desolata, i boss si riuniscono per aggiustare dissidi, comporre fratture ed evitare guerre».
«San Luca - dice nel film Nicola Grattieri, sostituto procuratore della Direzione antimafia di Reggio Calabria - è la mamma della ′ndrangheta».
Perché di San Luca, questo paese di 4 mila anime, sono i clan dei Pelle-Vottari e Nirta-Strangio, che si combattono ferocemente, senza esclusioni di colpi, e che, nel ferragosto dello scorso anno, sono stati protagonisti della strage di Duisburg, assurta ai clamori delle cronache dei giornali di tutto il mondo.
Un errore, dal punto di vista mediatico.

Dopo le ripercussioni negative seguite agli omicidi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1992, le altre mafie italiane hanno scelto di mantenere un profilo basso.
«Quando c’è stata la strage di Duisburg - ha scritto Roberto Saviano in "Raccontare la realtà" (2008) -, la prima cosa che hanno fatto le grandi organizzazioni criminali – secondo quanto dichiarano i servizi segreti tedeschi – è stato organizzare una riunione a Lipsia dove a un certo punto le altre organizzazioni italiane, cioè la mafia e la camorra, hanno detto ai calabresi: “Adesso dovete risolvere il problema dell’attenzione che avete generato. Perché in Germania noi non esistevamo”». Ancora Saviano: «Antonino Caponnetto diceva sempre che per i mafiosi era meglio l’ergastolo dell’attenzione».

Per questo merita la massima attenzione la nascita di una nuova associazione non profit a San Luca.

Formata da sole donne, unite dai problemi comuni - la disoccupazione, i pregiudizi, l′omertà - si chiama Rosa Movimento delle donne di San Luca, è apartitica e apolitica e conta 400 iscritte, giovani e meno giovani, unitesi intorno a più progetti: una ludoteca, un consultorio familiare, vari laboratori artigianali che vendono i loro prodotti attraverso internet.

Promotrice del movimento è Rosy Canale, che ha alle spalle varie esperienze di volontariato ma che soprattutto è stata imprenditrice nel settore della ristorazione e dell’intrattenimento, costretta a chiudere e lasciare la sua terra qualche anno fa, dopo una lunga serie di problemi col territorio, una resistenza durata due anni e culminata con una terribile aggressione.
«C’è tanto da fare - dice Canale -, prima di tutto riportare la fiducia tra queste donne, tra questa gente, a cui troppe volte sono state promesse alternative mai realizzate. Perché, purtroppo, pare proprio che il mondo si ricordi di San Luca solo per le stragi, o durante il periodo elettorale. Invertiamo la tendenza. Oggi San Luca dà segno di voler uscire dai soliti luoghi comuni in cui è stato cristallizzato. E’ un segno importante che merita un plauso, ed il giusto risalto. Perché non è possibile che solo il sangue faccia notizia, e tutto il bene che c’è qui? Se nessuno ne parla, nessun altro lo saprà mai».

L′iniziativa sta intraprendendo la strada giusta. Hanno già assicurato il loro sostegno il Consorzio Goel e la Provincia di Reggio Calabria, con cui si sta progettando un ampliamento del movimento a tutta la Locride. E alla recente inaugurazione della sede sono volute intervenire tutte le autorità dello Stato: il sindaco Sebastiano Giorgi, il Vice Prefetto di Reggio Calabria e coordinatore del Progetto San Luca Giuseppe Priolo, numerosi sindaci della Locride, Giuseppe Agliano in rappresentanza dell′Amministrazione reggina, Mario Nasone del ministero di Grazia e Giustizia, il Capitano del Comando di Bianco Andrea Caputo ed il Comandante della stazione dei Carabinieri di San Luca Maurizio Venezia.

Si chiama "Casa dell′accoglienza" ed è stata consacrata da don Pino Strangio alla Madonna di Polsi. Nella loro preghiera, le donne di San Luca chiedono d′avere la forza di perdonare, per interrompere la catena dell’odio e costruire insieme un futuro migliore per tutti.
Consorzio Parsfal
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«Da dove nasce tanta violenza? - si chiede il narratore del documentario
-. Dov′è il luogo che genera questo potere che sembra invincibile?
"E′ a San Luca" - ci dicono - "Sull′Aspromonte".
Qui c′è l′epicentro mondiale della ′ndrangheta. Da qui partono gli ordini.

In queste case brutte e anonime ci sono uomini in grado di comunicare con i più lontani angoli del pianeta. In sperduti casolari nascosti dai boschi, dall′apparenza desolata, i boss si riuniscono per aggiustare dissidi, comporre fratture ed evitare guerre».
«San Luca - dice nel film Nicola Grattieri, sostituto procuratore della Direzione antimafia di Reggio Calabria - è la mamma della ′ndrangheta».
Perché di San Luca, questo paese di 4 mila anime, sono i clan dei Pelle-Vottari e Nirta-Strangio, che si combattono ferocemente, senza esclusioni di colpi, e che, nel ferragosto dello scorso anno, sono stati protagonisti della strage di Duisburg, assurta ai clamori delle cronache dei giornali di tutto il mondo.
Un errore, dal punto di vista mediatico.

Dopo le ripercussioni negative seguite agli omicidi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1992, le altre mafie italiane hanno scelto di mantenere un profilo basso.
«Quando c’è stata la strage di Duisburg - ha scritto Roberto Saviano in "Raccontare la realtà" (2008) -, la prima cosa che hanno fatto le grandi organizzazioni criminali – secondo quanto dichiarano i servizi segreti tedeschi – è stato organizzare una riunione a Lipsia dove a un certo punto le altre organizzazioni italiane, cioè la mafia e la camorra, hanno detto ai calabresi: “Adesso dovete risolvere il problema dell’attenzione che avete generato. Perché in Germania noi non esistevamo”». Ancora Saviano: «Antonino Caponnetto diceva sempre che per i mafiosi era meglio l’ergastolo dell’attenzione».

Per questo merita la massima attenzione la nascita di una nuova associazione non profit a San Luca.

Formata da sole donne, unite dai problemi comuni - la disoccupazione, i pregiudizi, l′omertà - si chiama Rosa Movimento delle donne di San Luca, è apartitica e apolitica e conta 400 iscritte, giovani e meno giovani, unitesi intorno a più progetti: una ludoteca, un consultorio familiare, vari laboratori artigianali che vendono i loro prodotti attraverso internet.

Promotrice del movimento è Rosy Canale, che ha alle spalle varie esperienze di volontariato ma che soprattutto è stata imprenditrice nel settore della ristorazione e dell’intrattenimento, costretta a chiudere e lasciare la sua terra qualche anno fa, dopo una lunga serie di problemi col territorio, una resistenza durata due anni e culminata con una terribile aggressione.
«C’è tanto da fare - dice Canale -, prima di tutto riportare la fiducia tra queste donne, tra questa gente, a cui troppe volte sono state promesse alternative mai realizzate. Perché, purtroppo, pare proprio che il mondo si ricordi di San Luca solo per le stragi, o durante il periodo elettorale. Invertiamo la tendenza. Oggi San Luca dà segno di voler uscire dai soliti luoghi comuni in cui è stato cristallizzato. E’ un segno importante che merita un plauso, ed il giusto risalto. Perché non è possibile che solo il sangue faccia notizia, e tutto il bene che c’è qui? Se nessuno ne parla, nessun altro lo saprà mai».

L′iniziativa sta intraprendendo la strada giusta. Hanno già assicurato il loro sostegno il Consorzio Goel e la Provincia di Reggio Calabria, con cui si sta progettando un ampliamento del movimento a tutta la Locride. E alla recente inaugurazione della sede sono volute intervenire tutte le autorità dello Stato: il sindaco Sebastiano Giorgi, il Vice Prefetto di Reggio Calabria e coordinatore del Progetto San Luca Giuseppe Priolo, numerosi sindaci della Locride, Giuseppe Agliano in rappresentanza dell′Amministrazione reggina, Mario Nasone del ministero di Grazia e Giustizia, il Capitano del Comando di Bianco Andrea Caputo ed il Comandante della stazione dei Carabinieri di San Luca Maurizio Venezia.

Si chiama "Casa dell′accoglienza" ed è stata consacrata da don Pino Strangio alla Madonna di Polsi. Nella loro preghiera, le donne di San Luca chiedono d′avere la forza di perdonare, per interrompere la catena dell’odio e costruire insieme un futuro migliore per tutti.
Consorzio Parsfal

venerdì 29 agosto 2008

La frutta italiana costa meno all’estero.....


Di Monica Rubino

Usi & consumi



Le inefficienze nella filiera ortofrutticola, dal campo alla tavola, sono alla base di ricarichi ingiustificati che sfociano nel paradosso: in Germania la frutta e la verdura prodotte nel nostro Paese costano di meno che da noi


La frutta Made in Italy costa meno all'estero che in Italia.
A denunciare le pesanti distorsioni nella filiera dal campo alla tavola, lungo la quale i prezzi in media aumentano del 200% è la Coldiretti. "Le differenze di prezzo riscontrate in Germania sono tra il 5 e il 10%, mentre i trasporti pesano in media fino al 30% sul costo finale dell'ortofrutta, con differenze a seconda delle diverse distanze", si legge in una nota.
Secondo l'ultima indagine dell'Antitrust , infatti, ricorda ancora la Coldiretti, "i prezzi al consumo attualmente praticati dalla grande distribuzione nel comparto ortofrutticolo non sono inferiori a quelli praticati dalle altre tipologie di vendita e, in particolare, risultano sensibilmente superiori a quelli praticati dai mercati rionali e dagli ambulanti".
La stessa Antitrust nella sua indagine conoscitiva su 267 filiere osservate mette in evidenza come i ricarichi variano dal 77% nel caso di filiera cortissima (acquisto diretto dal produttore da parte del distributore al dettaglio) al 103% nel caso di un intermediario, al 290% nel caso di due intermediari, al 294% per la filiera lunga (presenza di 3 o 4 intermediari tra produttore e distributore finale), facendo segnare appunto il valore medio del 200% evidenziato da Bankitalia.
"Esiste dunque - sostiene la Coldiretti - un ampio margine da recuperare tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo per garantire un adeguato reddito alle imprese agrciole e acquisti convenienti ai consumatori.
Le inefficienze nella filiera ortofrutticola sono alla base di ricarichi ingiustificati, che stanno provocando in Italia una riduzione dei consumi con cali del 2,6% per la frutta e dello 0,8% per le verdure nel primo semestre del 2008, secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Ismea Ac Nielsen".
Si tratta di un "trend allarmante", denuncia ancora sil sindacato dei coltivatori diretti, visto che si tratta di alimenti di base della dieta mediterranea ed indispensabili per la salute per i quali, peraltro, l'Italia detiene il primato quantitativo e qualitativo a livello comunitario.
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Di Monica Rubino

Usi & consumi



Le inefficienze nella filiera ortofrutticola, dal campo alla tavola, sono alla base di ricarichi ingiustificati che sfociano nel paradosso: in Germania la frutta e la verdura prodotte nel nostro Paese costano di meno che da noi


La frutta Made in Italy costa meno all'estero che in Italia.
A denunciare le pesanti distorsioni nella filiera dal campo alla tavola, lungo la quale i prezzi in media aumentano del 200% è la Coldiretti. "Le differenze di prezzo riscontrate in Germania sono tra il 5 e il 10%, mentre i trasporti pesano in media fino al 30% sul costo finale dell'ortofrutta, con differenze a seconda delle diverse distanze", si legge in una nota.
Secondo l'ultima indagine dell'Antitrust , infatti, ricorda ancora la Coldiretti, "i prezzi al consumo attualmente praticati dalla grande distribuzione nel comparto ortofrutticolo non sono inferiori a quelli praticati dalle altre tipologie di vendita e, in particolare, risultano sensibilmente superiori a quelli praticati dai mercati rionali e dagli ambulanti".
La stessa Antitrust nella sua indagine conoscitiva su 267 filiere osservate mette in evidenza come i ricarichi variano dal 77% nel caso di filiera cortissima (acquisto diretto dal produttore da parte del distributore al dettaglio) al 103% nel caso di un intermediario, al 290% nel caso di due intermediari, al 294% per la filiera lunga (presenza di 3 o 4 intermediari tra produttore e distributore finale), facendo segnare appunto il valore medio del 200% evidenziato da Bankitalia.
"Esiste dunque - sostiene la Coldiretti - un ampio margine da recuperare tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo per garantire un adeguato reddito alle imprese agrciole e acquisti convenienti ai consumatori.
Le inefficienze nella filiera ortofrutticola sono alla base di ricarichi ingiustificati, che stanno provocando in Italia una riduzione dei consumi con cali del 2,6% per la frutta e dello 0,8% per le verdure nel primo semestre del 2008, secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Ismea Ac Nielsen".
Si tratta di un "trend allarmante", denuncia ancora sil sindacato dei coltivatori diretti, visto che si tratta di alimenti di base della dieta mediterranea ed indispensabili per la salute per i quali, peraltro, l'Italia detiene il primato quantitativo e qualitativo a livello comunitario.

Nella nuova Alitalia scompare la Puglia



Secondo indiscrezioni nel "piano Fenice" su cui si muove la nuova cordata che darà vita al nuovo vettore aereo che dovrebbe nascere da una costola di Alitalia e da Air One, gli scali pugliesi sono scomparsi. Il nuovo network prevede invece lo sviluppo di Milano (da cui saranno raggiungibili 73 destinazioni), Roma (44), Napoli (9), Catania (6), Torino (6) e Venezia (6).

ROMA – Lock-up di cinque anni per gli azionisti, accordo preventivo con i le rappresentanze sindacali, sei aeroporti base, flotta di 136 aerei, con aumento delle ore volate. Sono questi, secondo indiscrezioni pubblicata dalla stampa, i punti principali del piano Fenice su cui si muove la nuova cordata per dare vita al nuovo vettore aereo che dovrebbe nascere da una costola di Alitalia e da Air One.

- LOCK-UP: i soci avranno il vincolo di rimanere nel capitale della società fino al 2013. Nell’arco del primo triennio, orizzonte 2011, è previsto il ritorno all’utile della società

- SINDACATI: la realizzabilità del piano è subordinata al preventivo accordo con i sindacati. Condizione presente anche nel corso delle trattative con Air France. Proprio l’assenza del consenso dei sindacati fece saltare l’accordo.

- RINNOVO CONTRATTUALE: Tutti i dipendenti della nuova società dovranno sottoscrivere un nuovo regime contrattuale. Per il personale navigante è previsto un aumento delle ore volate: dalle attuali 550 si passerà a 650 per arrivare a 700 a fine piano.

- AEROPORTI: viene superato il concetto di hub e la strategia multipunto del nuovo vettore si articolerà su sei aeroporti base: Milano (da cui saranno raggiungibili 73 destinazioni), Roma (44), Napoli (9), Catania (6), Torino (6) e Venezia (6). Ogni polo aeroportuale servirà il bacino che è in grado di sostenere.

- FLOTTA: La flotta della nuova società sarà complessivamente di 136 aeromobili, per portarsi al 2013 a 150 unità. Questo sottintende un quantitativo di esuberi anche per il personale volante di Alitalia, quantificabile in circa 700 unità. Non è ancora chiaro a questo proposito se il taglio di personale verrà effettuato a monte (nella «bad company» commissariata) o a valle (direttamente nella nuova società).

- ESUBERI: Nella nuova compagnia transiteranno da Alitalia, oltre al personale viaggiante, seppur parzialmente ridimensionato, anche attività di servizio come la manutenzione leggera, la parte preponderante dell’information technology ed i dipendenti a terra che svolgono mansioni connesse con l'attività di volo. Resteranno nella bad company, che dovra gestire circa 7.000 esuberi, i settori non focali dell’information technology, la manutenzione pesante, i call center, le riparazioni ed i servizi amministrativi generici.

La Gazzetta del mezzogiorno
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Secondo indiscrezioni nel "piano Fenice" su cui si muove la nuova cordata che darà vita al nuovo vettore aereo che dovrebbe nascere da una costola di Alitalia e da Air One, gli scali pugliesi sono scomparsi. Il nuovo network prevede invece lo sviluppo di Milano (da cui saranno raggiungibili 73 destinazioni), Roma (44), Napoli (9), Catania (6), Torino (6) e Venezia (6).

ROMA – Lock-up di cinque anni per gli azionisti, accordo preventivo con i le rappresentanze sindacali, sei aeroporti base, flotta di 136 aerei, con aumento delle ore volate. Sono questi, secondo indiscrezioni pubblicata dalla stampa, i punti principali del piano Fenice su cui si muove la nuova cordata per dare vita al nuovo vettore aereo che dovrebbe nascere da una costola di Alitalia e da Air One.

- LOCK-UP: i soci avranno il vincolo di rimanere nel capitale della società fino al 2013. Nell’arco del primo triennio, orizzonte 2011, è previsto il ritorno all’utile della società

- SINDACATI: la realizzabilità del piano è subordinata al preventivo accordo con i sindacati. Condizione presente anche nel corso delle trattative con Air France. Proprio l’assenza del consenso dei sindacati fece saltare l’accordo.

- RINNOVO CONTRATTUALE: Tutti i dipendenti della nuova società dovranno sottoscrivere un nuovo regime contrattuale. Per il personale navigante è previsto un aumento delle ore volate: dalle attuali 550 si passerà a 650 per arrivare a 700 a fine piano.

- AEROPORTI: viene superato il concetto di hub e la strategia multipunto del nuovo vettore si articolerà su sei aeroporti base: Milano (da cui saranno raggiungibili 73 destinazioni), Roma (44), Napoli (9), Catania (6), Torino (6) e Venezia (6). Ogni polo aeroportuale servirà il bacino che è in grado di sostenere.

- FLOTTA: La flotta della nuova società sarà complessivamente di 136 aeromobili, per portarsi al 2013 a 150 unità. Questo sottintende un quantitativo di esuberi anche per il personale volante di Alitalia, quantificabile in circa 700 unità. Non è ancora chiaro a questo proposito se il taglio di personale verrà effettuato a monte (nella «bad company» commissariata) o a valle (direttamente nella nuova società).

- ESUBERI: Nella nuova compagnia transiteranno da Alitalia, oltre al personale viaggiante, seppur parzialmente ridimensionato, anche attività di servizio come la manutenzione leggera, la parte preponderante dell’information technology ed i dipendenti a terra che svolgono mansioni connesse con l'attività di volo. Resteranno nella bad company, che dovra gestire circa 7.000 esuberi, i settori non focali dell’information technology, la manutenzione pesante, i call center, le riparazioni ed i servizi amministrativi generici.

La Gazzetta del mezzogiorno

La Cassazione dà torto ai Mastella (e tutti fingono di non accorgersene)


di Uguale per Tutti


Il paradosso di questi tempi è che tutti danno addosso alla magistratura non per le cose di cui dovrebbe vergognarsi (per esempio la condanna di Luigi De Magistris e il trasferimento di Clementina Forleo), ma per ciò per cui dovrebbe ricevere medaglie al valore.
Dunque, invece di dare una promozione sul campo ai magistrati che hanno portato in carcere il Presidente della Regione Abruzzo, per avere posto così fine a quello che, a tutt’oggi e salvo quanto potrà emergere in futuro, appare un vergognoso sistema di corruzione in danno delle finanze pubbliche e della salute dei cittadini, si sostiene che quell’arresto è la prova che bisogna riformare la giustizia.
Si confessa, in sostanza, che l’obiettivo della riforma è impedire alla giustizia di fare giustizia.
Impedirglielo – e qui è il paradosso – ancora di più di quanto già non si sia fatto con decenni di riforme tutte sistematicamente contro la giustizia.

Così, è accaduto solo pochi mesi fa – nel gennaio di quest’anno:
a questo link uno scritto di Felice Lima su quelle vicende – che tre quarti del Parlamento ha applaudito un Ministro della Giustizia inquisito e marito di una inquisita, che, fingendo di farlo per motivi istituzionali, faceva cadere un Governo per un calcolo politico consistente nel credere di sapere che ciò lo avrebbe messo in condizioni di ottenere un vantaggio politico alle elezioni conseguenti.
In occasione di quella vergognosa gazzarra che ha disonorato il Parlamento e chi lo occupa, si è sostenuto – con la grancassa dei giornalisti al soldo del potere – che la signora Lonardo/Mastella era vittima di una scorrettezza dei magistrati.
Ci si è detti – come per Del Turco e come sempre – sicuri (non si sa sulla base di che e contro le evidenze documentali) che si era di fronte a una persecuzione giudiziaria.
Si sono linciati sui giornali tutti i magistrati che avevano fatto semplicemente il loro dovere.
Si sono minacciate richieste milionarie di risarcimento danni.
Il Mastella si è chiesto accorato “Quando arriverà la sentenza di proscioglimento chi mi ripagherà del sogno di essere ministro della Repubblica?”
(Reuters) (come se fare il Ministro non fosse un servizio, ma, appunto, un sogno).
Come accaduto mille altre volte, anche in questo caso i fatti sono contro questa classe dirigente nemica della giustizia e amica di ogni genere di pregiudicato.
Così la Corte Suprema di Cassazione, con una sentenza depositata l’altro ieri – la n. 33843 del 2008 – ha detto che la custodia cautelare in carcere della Lonardo/Mastella era del tutto legittima e doverosa e che alla signora che tanto ci ha afflitti con le sue manfrine (invece che chiedere scusa e vergognarsi in silenzio) non risarciremo un bel nulla.
Purtroppo, piuttosto, non avremo da lei il risarcimento che ci dovrebbe.
La notizia di questa importante pronuncia della Cassazione è stata data, ovviamente, dai giornalai del potere (cioè la sostanziale totalità della stampa in giro per le edicole) a bassissima voce.
Riportiamo qui sotto l’articolo con il quale La Repubblica ha dato la notizia, con poche righe ben nascoste in DODICESIMA pagina, metà delle quali (titolo compreso) dedicate alle assurde tesi dell’indagata.

E pubblichiamo – a questo link – il testo integrale della sentenza della Cassazione, per chi volesse farsi un’idea adeguata di come e perché pretendere che il Direttore Generale di una ASL fatto nominare dal Partito nomini a sua volta due primari (di neurochirurgia e di cardiologia) indicati dal Partito non sia “fare politica”, ma sia “crimine” (nello specifico, concussione).

E ciò senza dire di come sia ridotto un Paese nel quale i ferri in neurochirurgia e cardiologia non li diamo a chi li sa usare, ma a chi è amico dei Mastella.
___________________________________________________________________


La Cassazione sulla moglie di Mastella: confermati gli indizi di colpevolezza.
La difesa: “Non è una sentenza di condanna”.
“Lonardo faceva clientelismo per conto dell’Udeur”.

di Roberto Fuccillo (Giornalista)da La Repubblica del 26 agosto 2008


Napoli – Sandra Lonardo Mastella faceva clientela e abusava della sua posizione di presidente del Consiglio regionale.

Non è una conclusione processuale, ma una ipotesi accusatoria di cui ieri la Corte di Cassazione ha confermato la plausibilità, riportando a galla la vicenda, che dall’arresto di lady Mastella aveva portato fino alla caduta del governo Prodi.
Si tratta delle motivazioni, depositate ieri, della sentenza con la quale a giugno la Corte aveva respinto un ricorso della Lonardo contro la decisione del Tribunale del riesame di Napoli, che a gennaio le aveva tolto gli arresti domiciliari ma confermato un provvedimento restrittivo, l’obbligo di dimora a Ceppaloni.
«Non è una sentenza di condanna, né potrebbe esserlo – fa notare subito l’avvocato Titta Madia – E un giudizio di legittimità, non di merito, non accerta i fatti concreti».
Sicchè, «in attesa dell’accertamento dei fatti, la signora Lonardo continua a rimanere serena».
Le ultime righe delle sentenza sono però nette: «I motivi con cui i difensori hanno contestato la sussistenza dei gravi indizi a carico dell’indagata devono ritenersi infondati».
La Cassazione rievoca le pressioni fatte al direttore dell’Ospedale di Caserta, Luigi Annunziata, per la nomina di due primari cari all’Udeur.
Rileva che la Lonardo «in più occasioni aveva manifestato la volontà di defenestrare il direttore», giustifica i colleghi del riesame, nota che l’ipotesi di concussione è comunque sostenibile per una attività volta a «compromettere il regolare funzionamento della pubblica amministrazione».
Resta al palo la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: i legali avevano mantenuto il ricorso, nonostante la successiva rimessa in libertà dell’ assistita, anche in vista di una richiesta in tal senso a giudizio concluso.

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di Uguale per Tutti


Il paradosso di questi tempi è che tutti danno addosso alla magistratura non per le cose di cui dovrebbe vergognarsi (per esempio la condanna di Luigi De Magistris e il trasferimento di Clementina Forleo), ma per ciò per cui dovrebbe ricevere medaglie al valore.
Dunque, invece di dare una promozione sul campo ai magistrati che hanno portato in carcere il Presidente della Regione Abruzzo, per avere posto così fine a quello che, a tutt’oggi e salvo quanto potrà emergere in futuro, appare un vergognoso sistema di corruzione in danno delle finanze pubbliche e della salute dei cittadini, si sostiene che quell’arresto è la prova che bisogna riformare la giustizia.
Si confessa, in sostanza, che l’obiettivo della riforma è impedire alla giustizia di fare giustizia.
Impedirglielo – e qui è il paradosso – ancora di più di quanto già non si sia fatto con decenni di riforme tutte sistematicamente contro la giustizia.

Così, è accaduto solo pochi mesi fa – nel gennaio di quest’anno:
a questo link uno scritto di Felice Lima su quelle vicende – che tre quarti del Parlamento ha applaudito un Ministro della Giustizia inquisito e marito di una inquisita, che, fingendo di farlo per motivi istituzionali, faceva cadere un Governo per un calcolo politico consistente nel credere di sapere che ciò lo avrebbe messo in condizioni di ottenere un vantaggio politico alle elezioni conseguenti.
In occasione di quella vergognosa gazzarra che ha disonorato il Parlamento e chi lo occupa, si è sostenuto – con la grancassa dei giornalisti al soldo del potere – che la signora Lonardo/Mastella era vittima di una scorrettezza dei magistrati.
Ci si è detti – come per Del Turco e come sempre – sicuri (non si sa sulla base di che e contro le evidenze documentali) che si era di fronte a una persecuzione giudiziaria.
Si sono linciati sui giornali tutti i magistrati che avevano fatto semplicemente il loro dovere.
Si sono minacciate richieste milionarie di risarcimento danni.
Il Mastella si è chiesto accorato “Quando arriverà la sentenza di proscioglimento chi mi ripagherà del sogno di essere ministro della Repubblica?”
(Reuters) (come se fare il Ministro non fosse un servizio, ma, appunto, un sogno).
Come accaduto mille altre volte, anche in questo caso i fatti sono contro questa classe dirigente nemica della giustizia e amica di ogni genere di pregiudicato.
Così la Corte Suprema di Cassazione, con una sentenza depositata l’altro ieri – la n. 33843 del 2008 – ha detto che la custodia cautelare in carcere della Lonardo/Mastella era del tutto legittima e doverosa e che alla signora che tanto ci ha afflitti con le sue manfrine (invece che chiedere scusa e vergognarsi in silenzio) non risarciremo un bel nulla.
Purtroppo, piuttosto, non avremo da lei il risarcimento che ci dovrebbe.
La notizia di questa importante pronuncia della Cassazione è stata data, ovviamente, dai giornalai del potere (cioè la sostanziale totalità della stampa in giro per le edicole) a bassissima voce.
Riportiamo qui sotto l’articolo con il quale La Repubblica ha dato la notizia, con poche righe ben nascoste in DODICESIMA pagina, metà delle quali (titolo compreso) dedicate alle assurde tesi dell’indagata.

E pubblichiamo – a questo link – il testo integrale della sentenza della Cassazione, per chi volesse farsi un’idea adeguata di come e perché pretendere che il Direttore Generale di una ASL fatto nominare dal Partito nomini a sua volta due primari (di neurochirurgia e di cardiologia) indicati dal Partito non sia “fare politica”, ma sia “crimine” (nello specifico, concussione).

E ciò senza dire di come sia ridotto un Paese nel quale i ferri in neurochirurgia e cardiologia non li diamo a chi li sa usare, ma a chi è amico dei Mastella.
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La Cassazione sulla moglie di Mastella: confermati gli indizi di colpevolezza.
La difesa: “Non è una sentenza di condanna”.
“Lonardo faceva clientelismo per conto dell’Udeur”.

di Roberto Fuccillo (Giornalista)da La Repubblica del 26 agosto 2008


Napoli – Sandra Lonardo Mastella faceva clientela e abusava della sua posizione di presidente del Consiglio regionale.

Non è una conclusione processuale, ma una ipotesi accusatoria di cui ieri la Corte di Cassazione ha confermato la plausibilità, riportando a galla la vicenda, che dall’arresto di lady Mastella aveva portato fino alla caduta del governo Prodi.
Si tratta delle motivazioni, depositate ieri, della sentenza con la quale a giugno la Corte aveva respinto un ricorso della Lonardo contro la decisione del Tribunale del riesame di Napoli, che a gennaio le aveva tolto gli arresti domiciliari ma confermato un provvedimento restrittivo, l’obbligo di dimora a Ceppaloni.
«Non è una sentenza di condanna, né potrebbe esserlo – fa notare subito l’avvocato Titta Madia – E un giudizio di legittimità, non di merito, non accerta i fatti concreti».
Sicchè, «in attesa dell’accertamento dei fatti, la signora Lonardo continua a rimanere serena».
Le ultime righe delle sentenza sono però nette: «I motivi con cui i difensori hanno contestato la sussistenza dei gravi indizi a carico dell’indagata devono ritenersi infondati».
La Cassazione rievoca le pressioni fatte al direttore dell’Ospedale di Caserta, Luigi Annunziata, per la nomina di due primari cari all’Udeur.
Rileva che la Lonardo «in più occasioni aveva manifestato la volontà di defenestrare il direttore», giustifica i colleghi del riesame, nota che l’ipotesi di concussione è comunque sostenibile per una attività volta a «compromettere il regolare funzionamento della pubblica amministrazione».
Resta al palo la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: i legali avevano mantenuto il ricorso, nonostante la successiva rimessa in libertà dell’ assistita, anche in vista di una richiesta in tal senso a giudizio concluso.

LA GRANDE ILLUSIONE


DI PAUL KRUGMAN

New York Times


Fino ad ora, nonostante il ruolo della Georgia come importante corridoio per il trasporto del petrolio, le conseguenze economiche della guerra nel Caucaso sono state decisamente ridotte.
Ma mentre stavo leggendo le ultime cattive notizie mi son trovato a chiedermi se questa guerra sia un presagio, un segno che la seconda età della globalizzazione potrebbe trovarsi a condividere il destino della prima.
Se vi state domandando a che cosa io mi riferisca, ecco quello che dovete sapere:
i nostri nonni vivevano in un mondo di economie largamente autosufficienti, orientate verso l’interno.
I nostri trisnonni, però, vivevano, come noi oggi, in un mondo di commerci ed investimenti internazionali su larga scala, un mondo distrutto dai nazionalismi. Nel 1919 il grande economista britannico John Maynard Keynes descriveva l’economia mondiale come si presentava alla vigilia della prima Guerra Mondiale:
“L’abitante di Londra poteva ordinare telefonicamente, mentre sorbiva il tè del mattino, vari prodotti da tutto il mondo…, nello stesso tempo, e con lo stesso mezzo, poteva investire la sua ricchezza nelle risorse naturali e nelle imprese di qualunque parte del mondo.”
E il londinese di Keynes “considerava questa stato dei suoi affari come normale, certo e permanente, tranne che per la direzione di eventuali sviluppi…
I progetti e le politiche del militarismo e dell’imperialismo, delle rivalità culturali e razziali, dei monopoli, delle restrizioni e delle esclusioni… sembravano quasi non esercitare alcuna influenza sul corso normale della vita sociale ed economica, la cui internazionalizzazione era, in pratica, quasi completa.”
Ma sopraggiunsero tre decenni di guerra, rivoluzioni, instabilità politica, depressione ed ancora guerra.
Alla fine della seconda Guerra Mondiale il mondo era frammentato tanto a livello economico quanto politico, e ci vollero due generazioni per rimetterlo insieme. Quindi, le cose possono cadere a pezzi? Certo che possono.
Considerate come sono andate le cose nell’attuale crisi alimentare.
Per anni ci è stato detto che l’autosufficienza era un concetto superato e che era più sicuro affidarsi ai mercati mondiali per l’approvvigionamento di cibo.
Ma quando i prezzi di grano, riso e granturco sono andati alle stelle, i “progetti e le politiche” di Keynes, di “restrizione ed esclusione” sono ricomparsi sulla scena: molti governi si sono affrettati a proteggere i consumatori domestici proibendo o limitando le esportazioni, così lasciando i paesi importatori in terribili difficoltà.
E veniamo adesso al “militarismo ed imperialismo”.
Di per sé, come ho detto, la guerra in Georgia, sotto l’aspetto economico, non è stata granché. Però segna decisamente la fine della Pax Americana, l’era in cui gli Stati Uniti hanno più o meno mantenuto il monopolio dell’utilizzo della potenza militare; e questo solleva alcuni seri interrogativi sul futuro della globalizzazione.
Molto ovviamente la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, specialmente per il gas naturale, adesso appare molto pericolosa, probabilmente ancor più pericolosa della sua dipendenza dal petrolio del Medio Oriente.
Dopo tutto la Russia ha già usato l’arma di pressione del gas: nel 2006 interruppe le forniture all’Ucraina nel bel mezzo di una disputa sui prezzi.
E se la Russia fosse intenzionata e capace di imporre il controllo sulla propria auto-dichiarata sfera d’influenza, non farebbero forse lo stesso anche gli altri? Pensate soltanto allo scompiglio che deriverebbe se la Cina, oggi sul punto di superare gli Stati Uniti come maggior paese industriale al mondo, volesse affermare con la forza le proprie pretese su Taiwan.
Alcuni analisti ci dicono di non preoccuparci: l’integrazione economica globale, di per sé stessa, ci proteggerà dalla guerra (o, almeno, così affermano) perché le economie commerciali di successo non vorranno rischiare la propria prosperità buttandosi nell’avventurismo militare.
Purtroppo, però, anche questo riporta alla mente sgradevoli memorie storiche. Poco prima della prima Guerra Mondiale un altro autore britannico, Norman Angell, pubblicò un famoso libro intitolato “La grande illusione”, nel quale affermava che la guerra era diventata obsoleta, che nell’era industriale moderna anche i vincitori sul campo perdono in realtà ben più di quanto guadagnino. (1)
Aveva ragione, ma le guerre continuarono comunque a scoppiare.
E così, dunque, possiamo pensare che le fondamenta della seconda economia globale siano oggi più solide di quelle della prima?
Da un certo punto di vista, sì.
Per esempio oggi guerre fra le nazioni dell’Europa occidentale ci sembrano assolutamente inconcepibili, non tanto in virtù dei legami economici quanto piuttosto per i valori democratici che condividono.
Buona parte del mondo, però, comprese nazioni che hanno un ruolo chiave nell’economia globale, non condivide quei valori.
Molti di noi hanno continuato a credere che, almeno fin quando l’economia “tira”, questo fattore non abbia particolare importanza, che possiamo contare su un commercio mondiale che continua a scorrere liberamente semplicemente perché è così redditizio. Ma non è un presupposto molto sicuro.
Angell aveva ragione nel descrivere come una grande illusione la convinzione che la conquista paga.
Ma la convinzione che la razionalità economica possa sempre prevenire le guerre è un’illusione altrettanto grande.
L’attuale elevato livello di interdipendenza economica globale, che può essere sostenuto soltanto se tutti i maggiori governi agiscono con ragionevolezza e buon senso, è molto più fragile di quanto immaginiamo.
Versione originale: Paul Robin Krugman (Economista statunitense, ha scritto numerose opere ed è editorialista ed opinionista per il New York Times. Insegna Economia e Relazioni Internazionali all’Università di Princeton. Il Washington Monthly, lo definisce "il più importante editorialista in America... il solo, quasi, ad analizzare la storia più importante della politica degli ultimi anni, la fusione di interessi industriali, lobbistici e politici, nella quale eccelle l'amministrazione Bush")


Link: http://www.nytimes.com/2008/08/15/opinion/15krugman.html
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DI PAUL KRUGMAN

New York Times


Fino ad ora, nonostante il ruolo della Georgia come importante corridoio per il trasporto del petrolio, le conseguenze economiche della guerra nel Caucaso sono state decisamente ridotte.
Ma mentre stavo leggendo le ultime cattive notizie mi son trovato a chiedermi se questa guerra sia un presagio, un segno che la seconda età della globalizzazione potrebbe trovarsi a condividere il destino della prima.
Se vi state domandando a che cosa io mi riferisca, ecco quello che dovete sapere:
i nostri nonni vivevano in un mondo di economie largamente autosufficienti, orientate verso l’interno.
I nostri trisnonni, però, vivevano, come noi oggi, in un mondo di commerci ed investimenti internazionali su larga scala, un mondo distrutto dai nazionalismi. Nel 1919 il grande economista britannico John Maynard Keynes descriveva l’economia mondiale come si presentava alla vigilia della prima Guerra Mondiale:
“L’abitante di Londra poteva ordinare telefonicamente, mentre sorbiva il tè del mattino, vari prodotti da tutto il mondo…, nello stesso tempo, e con lo stesso mezzo, poteva investire la sua ricchezza nelle risorse naturali e nelle imprese di qualunque parte del mondo.”
E il londinese di Keynes “considerava questa stato dei suoi affari come normale, certo e permanente, tranne che per la direzione di eventuali sviluppi…
I progetti e le politiche del militarismo e dell’imperialismo, delle rivalità culturali e razziali, dei monopoli, delle restrizioni e delle esclusioni… sembravano quasi non esercitare alcuna influenza sul corso normale della vita sociale ed economica, la cui internazionalizzazione era, in pratica, quasi completa.”
Ma sopraggiunsero tre decenni di guerra, rivoluzioni, instabilità politica, depressione ed ancora guerra.
Alla fine della seconda Guerra Mondiale il mondo era frammentato tanto a livello economico quanto politico, e ci vollero due generazioni per rimetterlo insieme. Quindi, le cose possono cadere a pezzi? Certo che possono.
Considerate come sono andate le cose nell’attuale crisi alimentare.
Per anni ci è stato detto che l’autosufficienza era un concetto superato e che era più sicuro affidarsi ai mercati mondiali per l’approvvigionamento di cibo.
Ma quando i prezzi di grano, riso e granturco sono andati alle stelle, i “progetti e le politiche” di Keynes, di “restrizione ed esclusione” sono ricomparsi sulla scena: molti governi si sono affrettati a proteggere i consumatori domestici proibendo o limitando le esportazioni, così lasciando i paesi importatori in terribili difficoltà.
E veniamo adesso al “militarismo ed imperialismo”.
Di per sé, come ho detto, la guerra in Georgia, sotto l’aspetto economico, non è stata granché. Però segna decisamente la fine della Pax Americana, l’era in cui gli Stati Uniti hanno più o meno mantenuto il monopolio dell’utilizzo della potenza militare; e questo solleva alcuni seri interrogativi sul futuro della globalizzazione.
Molto ovviamente la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, specialmente per il gas naturale, adesso appare molto pericolosa, probabilmente ancor più pericolosa della sua dipendenza dal petrolio del Medio Oriente.
Dopo tutto la Russia ha già usato l’arma di pressione del gas: nel 2006 interruppe le forniture all’Ucraina nel bel mezzo di una disputa sui prezzi.
E se la Russia fosse intenzionata e capace di imporre il controllo sulla propria auto-dichiarata sfera d’influenza, non farebbero forse lo stesso anche gli altri? Pensate soltanto allo scompiglio che deriverebbe se la Cina, oggi sul punto di superare gli Stati Uniti come maggior paese industriale al mondo, volesse affermare con la forza le proprie pretese su Taiwan.
Alcuni analisti ci dicono di non preoccuparci: l’integrazione economica globale, di per sé stessa, ci proteggerà dalla guerra (o, almeno, così affermano) perché le economie commerciali di successo non vorranno rischiare la propria prosperità buttandosi nell’avventurismo militare.
Purtroppo, però, anche questo riporta alla mente sgradevoli memorie storiche. Poco prima della prima Guerra Mondiale un altro autore britannico, Norman Angell, pubblicò un famoso libro intitolato “La grande illusione”, nel quale affermava che la guerra era diventata obsoleta, che nell’era industriale moderna anche i vincitori sul campo perdono in realtà ben più di quanto guadagnino. (1)
Aveva ragione, ma le guerre continuarono comunque a scoppiare.
E così, dunque, possiamo pensare che le fondamenta della seconda economia globale siano oggi più solide di quelle della prima?
Da un certo punto di vista, sì.
Per esempio oggi guerre fra le nazioni dell’Europa occidentale ci sembrano assolutamente inconcepibili, non tanto in virtù dei legami economici quanto piuttosto per i valori democratici che condividono.
Buona parte del mondo, però, comprese nazioni che hanno un ruolo chiave nell’economia globale, non condivide quei valori.
Molti di noi hanno continuato a credere che, almeno fin quando l’economia “tira”, questo fattore non abbia particolare importanza, che possiamo contare su un commercio mondiale che continua a scorrere liberamente semplicemente perché è così redditizio. Ma non è un presupposto molto sicuro.
Angell aveva ragione nel descrivere come una grande illusione la convinzione che la conquista paga.
Ma la convinzione che la razionalità economica possa sempre prevenire le guerre è un’illusione altrettanto grande.
L’attuale elevato livello di interdipendenza economica globale, che può essere sostenuto soltanto se tutti i maggiori governi agiscono con ragionevolezza e buon senso, è molto più fragile di quanto immaginiamo.
Versione originale: Paul Robin Krugman (Economista statunitense, ha scritto numerose opere ed è editorialista ed opinionista per il New York Times. Insegna Economia e Relazioni Internazionali all’Università di Princeton. Il Washington Monthly, lo definisce "il più importante editorialista in America... il solo, quasi, ad analizzare la storia più importante della politica degli ultimi anni, la fusione di interessi industriali, lobbistici e politici, nella quale eccelle l'amministrazione Bush")


Link: http://www.nytimes.com/2008/08/15/opinion/15krugman.html

Gli studenti rispondono: appuntamento a ottobre per dire "no" al voto in condotta



Un no secco alla reintroduzione del voto in condotta quello dell''Unione degli Studenti che ''ribadisce la propria profonda contrarieta' a questo provvedimento, che ribalta uno dei principi fondamentali del nostro Statuto degli Studenti e delle Studentesse, cancellando in un solo colpo i risultati di decenni di lotte studentesche per il primato del profitto e della qualita' dell'insegnamento'' e annuncia una mobilitazione per ottobre.

''Ci opponiamo al voto di condotta -spiegano gli studenti- in quanto crediamo in una scuola che sia basata sulla partecipazione degli studenti e sull'inclusione costruttiva delle marginalita', non in una scuola che, con un impressionante balzo indietro ai Decreti Regi, sa rispondere alla violenza ed al bullismo solo con la repressione''.
''Ci sentiamo profondamente traditi dal Ministro Gelmini -afferma l'Unione degli Studenti- che aveva promesso un confronto diretto con il Parlamento e con le Associazioni sul Disegno di Legge presentato a luglio.
Ci troviamo oggi con un decreto gia' approvato, non motivato da alcuna urgenza, con il solo scopo di escludere qualsiasi dibattito.
Ma non staremo a guardare -annunciano gli studenti- a chi ci vuole farci tacere risponderemo ad inizio ottobre con una grande mobilitazione nazionale''.
Fonte: adnkronos
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Un no secco alla reintroduzione del voto in condotta quello dell''Unione degli Studenti che ''ribadisce la propria profonda contrarieta' a questo provvedimento, che ribalta uno dei principi fondamentali del nostro Statuto degli Studenti e delle Studentesse, cancellando in un solo colpo i risultati di decenni di lotte studentesche per il primato del profitto e della qualita' dell'insegnamento'' e annuncia una mobilitazione per ottobre.

''Ci opponiamo al voto di condotta -spiegano gli studenti- in quanto crediamo in una scuola che sia basata sulla partecipazione degli studenti e sull'inclusione costruttiva delle marginalita', non in una scuola che, con un impressionante balzo indietro ai Decreti Regi, sa rispondere alla violenza ed al bullismo solo con la repressione''.
''Ci sentiamo profondamente traditi dal Ministro Gelmini -afferma l'Unione degli Studenti- che aveva promesso un confronto diretto con il Parlamento e con le Associazioni sul Disegno di Legge presentato a luglio.
Ci troviamo oggi con un decreto gia' approvato, non motivato da alcuna urgenza, con il solo scopo di escludere qualsiasi dibattito.
Ma non staremo a guardare -annunciano gli studenti- a chi ci vuole farci tacere risponderemo ad inizio ottobre con una grande mobilitazione nazionale''.
Fonte: adnkronos

giovedì 28 agosto 2008

"E io mi proclamo Capo di Stato"


Di Carlo Alberto Melis


L’indipendentista di Terralba Salvatore Meloni proclama oggi la nascita della repubblica Malu Entu.
Nel bel mezzo di una possibile crisi internazionale tra Russia e Paesi della Nato, il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, troveranno stamattina sulla scrivania una lettera stampata su carta rossoblù.
E dovranno, loro malgrado, affrontare la questione.
Un nuovo Stato bussa ufficialmente alle porte del Palazzo di Vetro, chiede di essere riconosciuto dalle Nazioni Unite e dai suoi Stati membri, primo fra tutti l’Italia, dal cui territorio afferma di essersi distaccato.
Si chiama Repubblica Malu Entu e, a dispetto del tono a tratti ironico della lettera inviata a Berlusconi, non dimostra di voler scherzare.
Parola di Meloni Salvatore («mi chiami Doddore»), presidente di un Governo già formato, forte di quattro dicasteri e altrettanti ministri che rispondono al nome di Gian Paolo Pisano (Interni), Felice Pani (Esteri), Alessandra Meli (Finanze) e Paolo Peddis (Ambiente e Agricoltura).
Cinque rappresentanti liberamente eletti dal popolo (da essi cinque medesimi costituito) e in carica per un periodo imprecisato.
L’isola di Mal di Ventre da oggi non è più parte dello Stato Italiano.
Alle 14 sarà iscritta Repubblica Malu Entu e i sei simboli (Sa Pintadora, l’albero degli Arborea, la dea madre, il re pastore nuragico, l’arciere, il guerriero in riposo).
«A essere precisi, la proclamazione noi l’abbiamo fatta il 4 luglio 1978 (stesso giorno, 201 anni esatti dopo gli Stati Uniti d’America, ndr ), però per correttezza volevamo attendere che la cosa fosse notificata allo Stato italiano e all’Onu.
Oggi dovrebbero ricevere la nostra lettera di proclamazione d’indipendenza, secondo il dettato della carta di San Francisco del 1945, ratificata dall’Italia nel 1957». Oggi è il gran giorno, dunque e il governo è schierato sul territorio:
«Mi sto godendo quest’isola meravigliosa», conferma Meloni, che precisa: «E cosa volete che accada? Lo sbarco dei marines?».
LA LETTERA.
Anche perché la sua lettera a Berlusconi è stata piuttosto chiara:
«Se voi userete la forza con la nostra Repubblica, noi reagiremo con le armi in nostra dotazione.
Le nostre forze armate terrestri risponderanno con pistole ad acqua, fionde di vario calibro e lancio di frecce spuntate.
La nostra marina metterà in linea la nostra portaerei a remi Eleonora d’Arborea, l’incrociatore pesante a pedali Grazia Deledda, la corvetta a remi Maria Carta con l’aggiunta della motosilurante leggera Marina Marini.
La nostra aviazione farà decollare gli aquiloni leggeri e, in seguito, gli aquiloni pesan isti ».
Berlusconi ama l’ironia, della quale fa largo uso. Capirà.
Soprattutto quando, andando avanti nella lettura, verrà a sapere che il nuovo Stato, pacifista ed ecologista, «determinato a proseguire sulla strada dell’indipendenza di tutto il territorio sardo», chiede (stavolta seriamente) la possibilità di accedere a un prestito di «almeno cento milioni di euro».
Il motivo: «Velocemente ci servono delle case di legno prefabbricate, un impianto fotovoltaico, un impianto eolico; a medio termine, necessitiamo di una condotta di acqua potabile che parta dal territorio della Sardegna sino a noi e di almeno due motoscafi».
Verrebbe quasi da pensare che i trent’anni trascorsi dalla proclamazione siano stati dettati dall’attesa di un presidente del Consiglio dotato di sufficiente ironia.
«In attesa di una sua risposta intelligente, la saluto caramente», conclude Meloni.
Intelligente? «Certo. Se l’Italia reagirà in maniera sciocca, per esempio mandando qualcuno ad arrestarmi, troverò un avvocato con le palle che mi difenderà.
In questo momento sono capo di Stato, liberamente eletto da chi è con me.
Sarebbe un reato internazionale.
Ci sarà pure un tribunale in questo mondo disposto a darmi ragione ».
Non fa una piega.
MICRONAZIONE.
E allora tanto vale provare a capire di più di questa micronazione, primo embrione della futura Repubblica Sarda, che per il momento ricorda il Principato di Sealand o la Repubblica delle Rose, due piattaforme marine che sul finire degli anni Sessanta proclamarono la loro indipendenza.
Per dovere di cronaca, il primo (nella Manica) esiste ancora, ma non è stato mai riconosciuto dall’Onu.
La seconda, nelle acque internazionali adriatiche, di fronte alla Romagna, fu fatta saltare nel giro di due mesi con l’esplosivo dalla Polizia italiana senza ulteriori spiegazioni (probabilmente quella che Doddore chiamerebbe la reazione «sciocca»).
«In realtà io non ho modelli», spiega Meloni, «il fatto che sia una piccola isola rende tutto più semplice».
I confini dello Stato sono tracciati tre miglia marine attorno all’isola di Mal di Ventre, costa ovest della Sardegna.
Un’isola che non è stata conquistata, ma usucapita dopo vent’anni di occupazione.
Formalmente è proprietà di un inglese, rappresentato da un commercialista a Napoli, al quale l’avvenuta usucapione sarà notificata quanto prima da un avvocato («ne troveremo uno del Foro di Oristano»).
Sugli 813mila metri quadrati vive una popolazione di cinque abitanti, destinata a crescere rapidamente: «Abbiamo trecentocinquanta richieste», precisa Meloni, che ha rinunciato alla cittadinanza italiana e alla residenza di Terralba.
«Chi vuole può fare chiedere la cittadinanza, da qualsiasi nazione provenga, non servono requisiti particolari».
Ma lei ora è senza passaporto, come fa? «Vorrà dire che per entrare in Italia chiederò il foglio di via. Sono extracomunitario, mi farò prendere le impronte digitali. Sarà molto charmant ».
E di cosa vivrete? «Di pesca, per esempio. Ci sono anche molti conigli qui, ma quelli li lasceremo vivere».
E come restituirà il prestito allo Stato italiano? «Allo stesso modo in cui ho sempre provveduto alla mia famiglia. E sono figlio di un minatore. Compreremo una macchina per stampare francobolli da collezione, per fare un po’ di business».
Come San Marino? «Di più». E poi: «Ci pensa? Chi verrà qui potrà farsi le foto con il presidente e con il ministro dell’Interno ».
A pagamento? «No, questo mai. Basterà un’offerta… ».

L'unione sarda 27.08.2008, pag.6
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Di Carlo Alberto Melis


L’indipendentista di Terralba Salvatore Meloni proclama oggi la nascita della repubblica Malu Entu.
Nel bel mezzo di una possibile crisi internazionale tra Russia e Paesi della Nato, il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, troveranno stamattina sulla scrivania una lettera stampata su carta rossoblù.
E dovranno, loro malgrado, affrontare la questione.
Un nuovo Stato bussa ufficialmente alle porte del Palazzo di Vetro, chiede di essere riconosciuto dalle Nazioni Unite e dai suoi Stati membri, primo fra tutti l’Italia, dal cui territorio afferma di essersi distaccato.
Si chiama Repubblica Malu Entu e, a dispetto del tono a tratti ironico della lettera inviata a Berlusconi, non dimostra di voler scherzare.
Parola di Meloni Salvatore («mi chiami Doddore»), presidente di un Governo già formato, forte di quattro dicasteri e altrettanti ministri che rispondono al nome di Gian Paolo Pisano (Interni), Felice Pani (Esteri), Alessandra Meli (Finanze) e Paolo Peddis (Ambiente e Agricoltura).
Cinque rappresentanti liberamente eletti dal popolo (da essi cinque medesimi costituito) e in carica per un periodo imprecisato.
L’isola di Mal di Ventre da oggi non è più parte dello Stato Italiano.
Alle 14 sarà iscritta Repubblica Malu Entu e i sei simboli (Sa Pintadora, l’albero degli Arborea, la dea madre, il re pastore nuragico, l’arciere, il guerriero in riposo).
«A essere precisi, la proclamazione noi l’abbiamo fatta il 4 luglio 1978 (stesso giorno, 201 anni esatti dopo gli Stati Uniti d’America, ndr ), però per correttezza volevamo attendere che la cosa fosse notificata allo Stato italiano e all’Onu.
Oggi dovrebbero ricevere la nostra lettera di proclamazione d’indipendenza, secondo il dettato della carta di San Francisco del 1945, ratificata dall’Italia nel 1957». Oggi è il gran giorno, dunque e il governo è schierato sul territorio:
«Mi sto godendo quest’isola meravigliosa», conferma Meloni, che precisa: «E cosa volete che accada? Lo sbarco dei marines?».
LA LETTERA.
Anche perché la sua lettera a Berlusconi è stata piuttosto chiara:
«Se voi userete la forza con la nostra Repubblica, noi reagiremo con le armi in nostra dotazione.
Le nostre forze armate terrestri risponderanno con pistole ad acqua, fionde di vario calibro e lancio di frecce spuntate.
La nostra marina metterà in linea la nostra portaerei a remi Eleonora d’Arborea, l’incrociatore pesante a pedali Grazia Deledda, la corvetta a remi Maria Carta con l’aggiunta della motosilurante leggera Marina Marini.
La nostra aviazione farà decollare gli aquiloni leggeri e, in seguito, gli aquiloni pesan isti ».
Berlusconi ama l’ironia, della quale fa largo uso. Capirà.
Soprattutto quando, andando avanti nella lettura, verrà a sapere che il nuovo Stato, pacifista ed ecologista, «determinato a proseguire sulla strada dell’indipendenza di tutto il territorio sardo», chiede (stavolta seriamente) la possibilità di accedere a un prestito di «almeno cento milioni di euro».
Il motivo: «Velocemente ci servono delle case di legno prefabbricate, un impianto fotovoltaico, un impianto eolico; a medio termine, necessitiamo di una condotta di acqua potabile che parta dal territorio della Sardegna sino a noi e di almeno due motoscafi».
Verrebbe quasi da pensare che i trent’anni trascorsi dalla proclamazione siano stati dettati dall’attesa di un presidente del Consiglio dotato di sufficiente ironia.
«In attesa di una sua risposta intelligente, la saluto caramente», conclude Meloni.
Intelligente? «Certo. Se l’Italia reagirà in maniera sciocca, per esempio mandando qualcuno ad arrestarmi, troverò un avvocato con le palle che mi difenderà.
In questo momento sono capo di Stato, liberamente eletto da chi è con me.
Sarebbe un reato internazionale.
Ci sarà pure un tribunale in questo mondo disposto a darmi ragione ».
Non fa una piega.
MICRONAZIONE.
E allora tanto vale provare a capire di più di questa micronazione, primo embrione della futura Repubblica Sarda, che per il momento ricorda il Principato di Sealand o la Repubblica delle Rose, due piattaforme marine che sul finire degli anni Sessanta proclamarono la loro indipendenza.
Per dovere di cronaca, il primo (nella Manica) esiste ancora, ma non è stato mai riconosciuto dall’Onu.
La seconda, nelle acque internazionali adriatiche, di fronte alla Romagna, fu fatta saltare nel giro di due mesi con l’esplosivo dalla Polizia italiana senza ulteriori spiegazioni (probabilmente quella che Doddore chiamerebbe la reazione «sciocca»).
«In realtà io non ho modelli», spiega Meloni, «il fatto che sia una piccola isola rende tutto più semplice».
I confini dello Stato sono tracciati tre miglia marine attorno all’isola di Mal di Ventre, costa ovest della Sardegna.
Un’isola che non è stata conquistata, ma usucapita dopo vent’anni di occupazione.
Formalmente è proprietà di un inglese, rappresentato da un commercialista a Napoli, al quale l’avvenuta usucapione sarà notificata quanto prima da un avvocato («ne troveremo uno del Foro di Oristano»).
Sugli 813mila metri quadrati vive una popolazione di cinque abitanti, destinata a crescere rapidamente: «Abbiamo trecentocinquanta richieste», precisa Meloni, che ha rinunciato alla cittadinanza italiana e alla residenza di Terralba.
«Chi vuole può fare chiedere la cittadinanza, da qualsiasi nazione provenga, non servono requisiti particolari».
Ma lei ora è senza passaporto, come fa? «Vorrà dire che per entrare in Italia chiederò il foglio di via. Sono extracomunitario, mi farò prendere le impronte digitali. Sarà molto charmant ».
E di cosa vivrete? «Di pesca, per esempio. Ci sono anche molti conigli qui, ma quelli li lasceremo vivere».
E come restituirà il prestito allo Stato italiano? «Allo stesso modo in cui ho sempre provveduto alla mia famiglia. E sono figlio di un minatore. Compreremo una macchina per stampare francobolli da collezione, per fare un po’ di business».
Come San Marino? «Di più». E poi: «Ci pensa? Chi verrà qui potrà farsi le foto con il presidente e con il ministro dell’Interno ».
A pagamento? «No, questo mai. Basterà un’offerta… ».

L'unione sarda 27.08.2008, pag.6

IL PUDORE CHE NON HANNO...




Ricevo questa " simpatica" segnalazione: dal blog di Sandro Ruotolo sandroruorolo.splinder.com




Della gaffe del sindaco di Roma, Gianni Alemanno ( qualcuno lo ha definito il sindaco piacione della destra, una brutta e sbiadita copia di Walter Veltroni) si è detto nei giorni scorsi a proposito dei poveri cicloturisti olandesi (botte per entrambi e stupro per lei) che se l'erano cercata.

A tener banco oggi è il ministro dell'istruzione. Vi ricordate le dichiarazioni del ministro Mariastella Gelmini? "Quelli del sud sono insegnanti di serie B"?

Ebbene si è scoperto che la bresciana Gelmini è diventata avvocato superando l'esame di stato a Reggio Calabria.

Un pò di pudore, please!
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Ricevo questa " simpatica" segnalazione: dal blog di Sandro Ruotolo sandroruorolo.splinder.com




Della gaffe del sindaco di Roma, Gianni Alemanno ( qualcuno lo ha definito il sindaco piacione della destra, una brutta e sbiadita copia di Walter Veltroni) si è detto nei giorni scorsi a proposito dei poveri cicloturisti olandesi (botte per entrambi e stupro per lei) che se l'erano cercata.

A tener banco oggi è il ministro dell'istruzione. Vi ricordate le dichiarazioni del ministro Mariastella Gelmini? "Quelli del sud sono insegnanti di serie B"?

Ebbene si è scoperto che la bresciana Gelmini è diventata avvocato superando l'esame di stato a Reggio Calabria.

Un pò di pudore, please!

La Sicilia? Fu (e forse lo è ancora) un popolo di straccioni. Così la presenta Focus Storia


Che la Sicilia si possa offendere impunemente come ha fatto l’ex Ministro di stato Amato nel 2007 è cosa nota, che la Sicilia sia considerata terra di conquista e colonia italiana è cosa altrettanto nota.
Ma che adesso una rivista “italiana” spacci per storia una grottesca rappresentazione di un improbabile sbarco greco in Sicilia per “civilizzarlo” è il limite della decenza della pseudo cultura italiota.
Nel numero 22/2008, Focus Storia (?) , editrice Gruner e distribuito da Mondadori (un ritorno dopo la illuminante guida della Sicilia pubblicata nel 2007), presenta una copertina dedicata alla Sicilia che più che offendere l’Isola ed i suoi abitanti, offende il buon gusto e soprattutto dimostra come in questa “libera democrazia italiana”, artisticamente si può offendere e ridicolizzare chiunque spacciando una offensiva vignetta caricaturistica come libera interpretazione “artistica”.Mondadori a pagina 25 della sua guida affermava che
“ è una storia non siciliana, non generata internamente dall’isola ma sempre imposta dall’esterno. Anche i Sicani, gli Elimi e i Siculi … provenivano da fuori…”. E giù poi a dire che tutte le popolazioni che hanno composto l’identità siciliana non sarebbero state altro che “una successione di dominazioni.Focus Storia fa di meglio.
Presenta lo sbarco degli ateniesi come lo sbarco di Colombo in centro america, ma ricorda nell’insieme lo sbarco di Garibaldi a Marsala nel 1860, solo che la storia “scritta dagli stessi vincitori” ci ricorda che i marsalesi abbandonarono la città, e rappresenta il popolo siciliano come un popolo di straccioni privo di cultura ed intelligenza. Ma, cosa più allucinante, rappresenta le donne siciliane come “prostitute”, donnine facili o peggio ancora merce di scambio.
E già, perchè secondo Focus, Atene venne in Sicilia non solo per colonizzarla ma anche e soprattutto per civilizzarla e prendersi le donne siciliane, pronte a prostituirsi o a vendersi al civilizzatore.
E se ci fossero dei dubbi sull’interpretazione della tavola di apertura, Focus Storia interviene precisando che “... i coloni greci scambiavano le loro merci con le donne siciliane” .Secondo Focus Storia, i coloni greci (ma cosa c’entrano con i coloni i guerrieri greci raffigurati?) sbarcano in Sicilia vestiti di tuniche che guarda caso riportano i colori della bandiera italiana (!) quando tutto il mondo sa che i colori predominanti nell’antica grecia erano il rosso, l’ocra e il blu. Un trittico di colori italiani che appare come un chiaro messaggio subliminale.
La scena rappresentata dalla tavola di apertura ci presenta gli ateniesi come un popolo di cultura elevata che incontra un popolo che vive nell’era preistorica. Rozzo e ignorante, pronto a vendere per uno specchietto le proprie donne sapientemente presentate seminude e provocanti.
Insomma, un incontro tra la cultura, l’arte e l’intelligenza con l’arretratezza culturale profonda
Niente di più inesatto. I greci , al contrario dei Fenici che con i popoli siciliani avevano stabilito lucrosi incontri commerciali fondando numerosi empori di scambio, occuparono “militarmente” la Sicilia utilizzando di volta in volta scuse per giustificare l’occupazione, vedi il viaggio di Ulisse e vari miti che coinvolgevano la nostra isola (un po’ come fanno oggi gli americani con l’Afganistan, con la scusa di liberare le donne dal burqa, o con l’Iraq e le armi di distruzione di massa fantasma) e furono tutto meno che portatori di cultura.
Appena i greci sono arrivati sulle coste siciliane la popolazione residente si ritirò progressivamente sulle montagne per l’atteggiamento belligerante di questi.
Di certo coloro che pagarono il conto maggiore furono gli uomini di Siculi, Sicani ed Elimi, che quando non venivano uccisi divenivano schiavi.
Trattamento di favore era riservato alle donne, che non erano barattate o comprate, quanto più che altro rapite a scopo “riproduttivo”, fatto questo documentato da numerose testimonianze archeologiche.
E’ fuor di dubbio che l’introduzione di parte della cultura greca contribuì notevolmente allo sviluppo dell’isola che, malgrado le potenziali divisioni dovute alla diversa etnia non solo dei popoli già residenti in Sicilia prima dell’arrivo dei greci ma anche delle varie “colonie” che si insediarono, ben presto superò la Grecia e la maggior parte dei paesi del mediterraneo in: cultura, scienza, produzione agricola e potenza militare.
Basti ricordare la disastrosa spedizione ateniese contro Siracusa, ormai diventata più potente di Atene e Sparta messe insieme.
Se poi vogliamo dilungarci sui “siciliani illustri” del periodo classico, nati dalla fusione delle varie etnie in terra di Sicilia, di cui nell’articolo non si fa assolutamente cenno, basterebbe ricordare solo Archimede siracusano e Diodoro siculo.
La descrizione storica all’interno dell’articolo, a parte qualche importante lacuna e qualche imprecisione, in particolare la questione del grano che non è stato importato dai greci ma che è presente, in Sicilia sin dal 3000 A.C. (le lontanissime origini della cerealicoltura, in Sicilia sono confermate da rinvenimenti archeologici di macine e di altri reperti, di industrie domestiche risalenti alla cultura di Stentinello, ed in generale è stato documentato con certezza il primato del ruolo del grano nella coltivazione e nelle abitudini alimentari dei siciliani, come ci testimonia Plinio il Vecchio, nel De Naturalis Historia), e l’attribuzione dell’origine delle prelibatezze della pasticceria siciliana agli arabi, dimenticando i dolci a base di mandorla e miele del siracusano-ragusano-catanese spiccatamente greci che appare come una analisi, alquanto grossolana e superficiale sulla cucina siciliana e totale mancanza di conoscenza della storia culinaria della Sicilia, si presenta sufficientemente valida (in termini scolastici un 6-) anche se l’Isola non è mai stata una piazzola di sosta ma crocevia delle culture che hanno dato vita a tolleranza e convivenza tranne che nel periodo di occupazione greca, e viene da chiedersi quale sia il vero obiettivo di tali volgari rappresentazioni del popolo siciliano.
Ne abbiamo parlato con Marco Casareto, vicedirettore di Focus Storia il quale si è detto meravigliato delle proteste siciliane che a suo parere non appaiono giustificate.
La tavola di apertura, secondo Casareto, è una libera interpretazione dell’artista che così ha pensato di vedere lo “sbarco” dei greci.Prendiamo atto e riferiamo ma questa libera interpretazione sembra esprimere solo reconditi significati razzisti e niente più.
Meglio sarebbe stato se Focus Storia non avesse dato attenzione all’Isola, ne avrebbe guadagnato il buon gusto e soprattutto la storia.

osservatorio-sicilia.it
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Che la Sicilia si possa offendere impunemente come ha fatto l’ex Ministro di stato Amato nel 2007 è cosa nota, che la Sicilia sia considerata terra di conquista e colonia italiana è cosa altrettanto nota.
Ma che adesso una rivista “italiana” spacci per storia una grottesca rappresentazione di un improbabile sbarco greco in Sicilia per “civilizzarlo” è il limite della decenza della pseudo cultura italiota.
Nel numero 22/2008, Focus Storia (?) , editrice Gruner e distribuito da Mondadori (un ritorno dopo la illuminante guida della Sicilia pubblicata nel 2007), presenta una copertina dedicata alla Sicilia che più che offendere l’Isola ed i suoi abitanti, offende il buon gusto e soprattutto dimostra come in questa “libera democrazia italiana”, artisticamente si può offendere e ridicolizzare chiunque spacciando una offensiva vignetta caricaturistica come libera interpretazione “artistica”.Mondadori a pagina 25 della sua guida affermava che
“ è una storia non siciliana, non generata internamente dall’isola ma sempre imposta dall’esterno. Anche i Sicani, gli Elimi e i Siculi … provenivano da fuori…”. E giù poi a dire che tutte le popolazioni che hanno composto l’identità siciliana non sarebbero state altro che “una successione di dominazioni.Focus Storia fa di meglio.
Presenta lo sbarco degli ateniesi come lo sbarco di Colombo in centro america, ma ricorda nell’insieme lo sbarco di Garibaldi a Marsala nel 1860, solo che la storia “scritta dagli stessi vincitori” ci ricorda che i marsalesi abbandonarono la città, e rappresenta il popolo siciliano come un popolo di straccioni privo di cultura ed intelligenza. Ma, cosa più allucinante, rappresenta le donne siciliane come “prostitute”, donnine facili o peggio ancora merce di scambio.
E già, perchè secondo Focus, Atene venne in Sicilia non solo per colonizzarla ma anche e soprattutto per civilizzarla e prendersi le donne siciliane, pronte a prostituirsi o a vendersi al civilizzatore.
E se ci fossero dei dubbi sull’interpretazione della tavola di apertura, Focus Storia interviene precisando che “... i coloni greci scambiavano le loro merci con le donne siciliane” .Secondo Focus Storia, i coloni greci (ma cosa c’entrano con i coloni i guerrieri greci raffigurati?) sbarcano in Sicilia vestiti di tuniche che guarda caso riportano i colori della bandiera italiana (!) quando tutto il mondo sa che i colori predominanti nell’antica grecia erano il rosso, l’ocra e il blu. Un trittico di colori italiani che appare come un chiaro messaggio subliminale.
La scena rappresentata dalla tavola di apertura ci presenta gli ateniesi come un popolo di cultura elevata che incontra un popolo che vive nell’era preistorica. Rozzo e ignorante, pronto a vendere per uno specchietto le proprie donne sapientemente presentate seminude e provocanti.
Insomma, un incontro tra la cultura, l’arte e l’intelligenza con l’arretratezza culturale profonda
Niente di più inesatto. I greci , al contrario dei Fenici che con i popoli siciliani avevano stabilito lucrosi incontri commerciali fondando numerosi empori di scambio, occuparono “militarmente” la Sicilia utilizzando di volta in volta scuse per giustificare l’occupazione, vedi il viaggio di Ulisse e vari miti che coinvolgevano la nostra isola (un po’ come fanno oggi gli americani con l’Afganistan, con la scusa di liberare le donne dal burqa, o con l’Iraq e le armi di distruzione di massa fantasma) e furono tutto meno che portatori di cultura.
Appena i greci sono arrivati sulle coste siciliane la popolazione residente si ritirò progressivamente sulle montagne per l’atteggiamento belligerante di questi.
Di certo coloro che pagarono il conto maggiore furono gli uomini di Siculi, Sicani ed Elimi, che quando non venivano uccisi divenivano schiavi.
Trattamento di favore era riservato alle donne, che non erano barattate o comprate, quanto più che altro rapite a scopo “riproduttivo”, fatto questo documentato da numerose testimonianze archeologiche.
E’ fuor di dubbio che l’introduzione di parte della cultura greca contribuì notevolmente allo sviluppo dell’isola che, malgrado le potenziali divisioni dovute alla diversa etnia non solo dei popoli già residenti in Sicilia prima dell’arrivo dei greci ma anche delle varie “colonie” che si insediarono, ben presto superò la Grecia e la maggior parte dei paesi del mediterraneo in: cultura, scienza, produzione agricola e potenza militare.
Basti ricordare la disastrosa spedizione ateniese contro Siracusa, ormai diventata più potente di Atene e Sparta messe insieme.
Se poi vogliamo dilungarci sui “siciliani illustri” del periodo classico, nati dalla fusione delle varie etnie in terra di Sicilia, di cui nell’articolo non si fa assolutamente cenno, basterebbe ricordare solo Archimede siracusano e Diodoro siculo.
La descrizione storica all’interno dell’articolo, a parte qualche importante lacuna e qualche imprecisione, in particolare la questione del grano che non è stato importato dai greci ma che è presente, in Sicilia sin dal 3000 A.C. (le lontanissime origini della cerealicoltura, in Sicilia sono confermate da rinvenimenti archeologici di macine e di altri reperti, di industrie domestiche risalenti alla cultura di Stentinello, ed in generale è stato documentato con certezza il primato del ruolo del grano nella coltivazione e nelle abitudini alimentari dei siciliani, come ci testimonia Plinio il Vecchio, nel De Naturalis Historia), e l’attribuzione dell’origine delle prelibatezze della pasticceria siciliana agli arabi, dimenticando i dolci a base di mandorla e miele del siracusano-ragusano-catanese spiccatamente greci che appare come una analisi, alquanto grossolana e superficiale sulla cucina siciliana e totale mancanza di conoscenza della storia culinaria della Sicilia, si presenta sufficientemente valida (in termini scolastici un 6-) anche se l’Isola non è mai stata una piazzola di sosta ma crocevia delle culture che hanno dato vita a tolleranza e convivenza tranne che nel periodo di occupazione greca, e viene da chiedersi quale sia il vero obiettivo di tali volgari rappresentazioni del popolo siciliano.
Ne abbiamo parlato con Marco Casareto, vicedirettore di Focus Storia il quale si è detto meravigliato delle proteste siciliane che a suo parere non appaiono giustificate.
La tavola di apertura, secondo Casareto, è una libera interpretazione dell’artista che così ha pensato di vedere lo “sbarco” dei greci.Prendiamo atto e riferiamo ma questa libera interpretazione sembra esprimere solo reconditi significati razzisti e niente più.
Meglio sarebbe stato se Focus Storia non avesse dato attenzione all’Isola, ne avrebbe guadagnato il buon gusto e soprattutto la storia.

osservatorio-sicilia.it

LISSA, 20 LUGLIO 1866, PER I VENETI UNA VITTORIA DA RICORDARE! - LA STORIA PROIBITA


Lissa isola nel mare Adriatico è la più lontana dalla costa dalmata, conosciuta nell'antichità come Issa, più volte citata dai geografi greci.

Fu base navale della Repubblica Veneta fino al 1797.

Il "fatal 1866" iniziò politicamente a Berlino con la firma del patto d'Alleanza fra l'Italia e la Prussia l'otto di aprile.

Il 16 giugno scoppiò la guerra fra Prussia e Austria e il 20 giugno con il proclama del re l'Italia dichiarò guerra all'Austria; la baldanza degli italiani fu però prontamente smorzata poche ore dopo (24 giugno) a Custoza ove l'esercito tricolore fu sconfitto dall'esercito asburgico (nel quale militavano i soldati veneti).

Fra il 16 e il 28 giugno le armate prussiane invasero l'Hannover, la Sassonia e l'Assia ed il 3 luglio ci fu la vittoria dei prussiani a Sadowa.
Due giorni dopo l'impero asburgico decise di cedere il Veneto alla Francia (con il tacito accordo che fosse poi dato ai Savoia) pur di concludere un armistizio.

In Italia furono però contrari a tale proposta che umiliava le forze armate italiane e, viste le penose condizioni dell'esercito dopo la batosta di Custoza, puntarono sulla marina per riportare una vittoria sul nemico che consentisse loro di chiudere onorevolmente (una volta tanto) una guerra.
Gli italiani non potevano certo pensare di trovare sul loro cammino i Veneti, ossatura della marina austriaca.

La marina militare austriaca era praticamente nata nel 1797 e già il nome era estremamente significativo: "Oesterreich-Venezianische Marine" (Imperiale e Regia Veneta Marina).

Equipaggi ed ufficiali provenivano praticamente tutti dall'area veneta dell'impero (veneti in senso stretto, giuliani, istriani e dalmati popoli fratelli dei quali non possiamo dimenticare l' attaccamento alla Serenissima) (1) e i pochi "foresti" ne avevano ben recepito le tradizioni nautiche, militari, culturali e storiche.
La lingua corrente era il veneto, a tutti i livelli.

Nel 1849 dopo la rivoluzione veneta capitanata da Daniele Manin c'era stata, è vero, una certa "austricizzazione" : nella denominazione ufficiale l'espressione "veneta" veniva tolta, c'era stato un notevole ricambio tra gli ufficiali, il tedesco era diventato lingua "primaria".

Ma questo cambiamento non poteva essere assorbito nel giro di qualche mese; e non si può quindi dar certo torto a Guido Piovene, il grande intellettuale veneto del novecento, che considerava Lissa l'ultima grande vittoria della marina veneta-adriatica. (2)

I nuovi marinai infatti continuavano ad essere reclutati nell'area veneta dell'impero asburgico, non certo nelle regioni alpine, e il veneto continuava ad essere la lingua corrente, usata abitualmente anche dall'ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff che aveva studiato (come tutti gli altri ufficiali) nel Collegio Marino di Venezia e che era stato "costretto" a parlar veneto fin dall'inizio della sua carriera per farsi capire dai vari equipaggi.

La lingua veneta contribuì certamente ad elevare la compattezza e l'omogeneità degli equipaggi; estremamente interessante quanto scrive l'ammiraglio Angelo Iachino (3) : " ... non vi fu mai alcun movimento di irredentismo tra gli equipaggi austriaci durante la guerra, nemmeno quando, nel luglio del 1866, si cominciò a parlare della cessione della Venezia all'Italia.

"Né in terra, né in mare i veneti erano così ansiosi di essere "liberati" dagli italiani come certa storiografia pretenderebbe di farci credere.
Pensiamo che perfino Garibaldi "s'infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo!"(4).
La marina tricolore brillava solamente per la rivalità fra le tre componenti e cioè la marina siciliana ( o garibaldina), la napoletana e la sarda.

Inoltre i comandanti delle tre squadre nelle quali l'armata era divisa, l'ammiraglio Persano, il vice ammiraglio Albini ed il contrammiraglio Vacca erano separati da profonda ostilità.

E la lettura del quotidiano francese "La Presse" è estremamente interessante: "Pare che all'amministrazione della Marina italiana stia per aprirsi un baratro di miserie: furti sui contratti e sulle transazioni con i costruttori, bronzo dei cannoni di cattiva qualità, polvere avariata, blindaggi troppo sottili, ecc.Se si vorranno fare delle inchieste serie, si scoprirà ben altro".(5)

Si arrivò così alla mattina del 20 luglio.

"La Marina italiana aveva, su quella Austriaca, una superiorità numerica di circa il 60 per cento negli equipaggi e di circa il 30 per cento negli ufficiali.
Ma il nostro personale proveniva da marine diverse e risentiva del regionalismo ancora vivo nella nazione da poco unificata e in particolare del vecchio antagonismo fra Nord e Sud." (6)

E così in circa un'ora l'abilità del Tegetthoff ed il valore degli equipaggi consentì alla marina austro-veneta (come la chiamano ancor oggi alcuni storici austriaci) di riportare una meritata vittoria.
Le perdite furono complessivamente di 620 morti e 40 feriti, quelle austro-venete di 38 morti e 138 feriti (7).

La corazzata "Re d'Italia", speronata dall'ammiraglia Ferdinand Max, affondò in pochi minuti con la tragica perdita di oltre 400 uomini, la corvetta corazzata Palestro colpita da un proiettile incendiario esplose trascinando con se oltre 200 vittime.E quando von Tegetthoff annunciò la vittoria, gli equipaggi veneti risposero lanciando i berretti in aria e gridando: "Viva San Marco" (8).

Degno di menzione è anche il capo timoniere della nave ammiraglia “Ferdinand Max”, Vincenzo Vianello di Pellestrina, detto “Gratton”, il quale agli ordini di Tegetthoff manovrò abilmente la nave per speronare ed afforndare l’ammiraglia “Re d’Italia”, guadagnandosi la medaglia d’oro imperiale assieme a Tomaso Penso di Chioggia.

Famoso è nella tradizione il comando che Tegetthoff diede a Vianello:“ …… daghe dosso, Nino, che la ciapemo”. (9)

Alla fine, nonostante le sconfitte di Custoza e Lissa, il Veneto passò all'Italia.
E a Napoleone III, imperatore dei francesi, non resterà che dire riferendosi agli italiani:
"Ancora una sconfitta e mi chiederanno Parigi". (10)

E Giuseppe Mazzini su "Il dovere" del 24 Agosto 1866:
"E' possibile che l'Italia accetti di essere additata in Europa come la sola nazione che non sappia combattere, la sola che non possa ricevere il suo se non per beneficio d'armi straniere e concessioni umilianti dell'usurpatore nemico?

"Note :

1) A. Zorzi - La Repubblica del Leone - RUSCONI (pag. 550)

2) S. Meccoli - Viva Venezia - LONGANESI (pag. 122)

3) A. Iachino - La campagna navale di Lissa 1866 - IL SAGGIATORE (pag. 133)

4) D. Mack Smith - Storia d'Italia - LATERZA

5) Mario Costa Cardol - Và pensiero ....su Roma assopita - MURSIA (pag. 5)

6 e 7) A. Iachino - Storia Illustrata 06/1966 (pagg. 113-119)

8) Vedi anche A. Zorzi - Venezia austriaca - LATERZA (pag. 138)

9) Alberto Vedovato - Il Leone di Lissa cosa è legittimo fare - Quaderni del Lombardo-Veneto n. 48, Aprile 1999.

10) Mario Costa Cardol - Ingovernabili da Torino - MURSIA (pag. 349)

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Lissa isola nel mare Adriatico è la più lontana dalla costa dalmata, conosciuta nell'antichità come Issa, più volte citata dai geografi greci.

Fu base navale della Repubblica Veneta fino al 1797.

Il "fatal 1866" iniziò politicamente a Berlino con la firma del patto d'Alleanza fra l'Italia e la Prussia l'otto di aprile.

Il 16 giugno scoppiò la guerra fra Prussia e Austria e il 20 giugno con il proclama del re l'Italia dichiarò guerra all'Austria; la baldanza degli italiani fu però prontamente smorzata poche ore dopo (24 giugno) a Custoza ove l'esercito tricolore fu sconfitto dall'esercito asburgico (nel quale militavano i soldati veneti).

Fra il 16 e il 28 giugno le armate prussiane invasero l'Hannover, la Sassonia e l'Assia ed il 3 luglio ci fu la vittoria dei prussiani a Sadowa.
Due giorni dopo l'impero asburgico decise di cedere il Veneto alla Francia (con il tacito accordo che fosse poi dato ai Savoia) pur di concludere un armistizio.

In Italia furono però contrari a tale proposta che umiliava le forze armate italiane e, viste le penose condizioni dell'esercito dopo la batosta di Custoza, puntarono sulla marina per riportare una vittoria sul nemico che consentisse loro di chiudere onorevolmente (una volta tanto) una guerra.
Gli italiani non potevano certo pensare di trovare sul loro cammino i Veneti, ossatura della marina austriaca.

La marina militare austriaca era praticamente nata nel 1797 e già il nome era estremamente significativo: "Oesterreich-Venezianische Marine" (Imperiale e Regia Veneta Marina).

Equipaggi ed ufficiali provenivano praticamente tutti dall'area veneta dell'impero (veneti in senso stretto, giuliani, istriani e dalmati popoli fratelli dei quali non possiamo dimenticare l' attaccamento alla Serenissima) (1) e i pochi "foresti" ne avevano ben recepito le tradizioni nautiche, militari, culturali e storiche.
La lingua corrente era il veneto, a tutti i livelli.

Nel 1849 dopo la rivoluzione veneta capitanata da Daniele Manin c'era stata, è vero, una certa "austricizzazione" : nella denominazione ufficiale l'espressione "veneta" veniva tolta, c'era stato un notevole ricambio tra gli ufficiali, il tedesco era diventato lingua "primaria".

Ma questo cambiamento non poteva essere assorbito nel giro di qualche mese; e non si può quindi dar certo torto a Guido Piovene, il grande intellettuale veneto del novecento, che considerava Lissa l'ultima grande vittoria della marina veneta-adriatica. (2)

I nuovi marinai infatti continuavano ad essere reclutati nell'area veneta dell'impero asburgico, non certo nelle regioni alpine, e il veneto continuava ad essere la lingua corrente, usata abitualmente anche dall'ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff che aveva studiato (come tutti gli altri ufficiali) nel Collegio Marino di Venezia e che era stato "costretto" a parlar veneto fin dall'inizio della sua carriera per farsi capire dai vari equipaggi.

La lingua veneta contribuì certamente ad elevare la compattezza e l'omogeneità degli equipaggi; estremamente interessante quanto scrive l'ammiraglio Angelo Iachino (3) : " ... non vi fu mai alcun movimento di irredentismo tra gli equipaggi austriaci durante la guerra, nemmeno quando, nel luglio del 1866, si cominciò a parlare della cessione della Venezia all'Italia.

"Né in terra, né in mare i veneti erano così ansiosi di essere "liberati" dagli italiani come certa storiografia pretenderebbe di farci credere.
Pensiamo che perfino Garibaldi "s'infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo!"(4).
La marina tricolore brillava solamente per la rivalità fra le tre componenti e cioè la marina siciliana ( o garibaldina), la napoletana e la sarda.

Inoltre i comandanti delle tre squadre nelle quali l'armata era divisa, l'ammiraglio Persano, il vice ammiraglio Albini ed il contrammiraglio Vacca erano separati da profonda ostilità.

E la lettura del quotidiano francese "La Presse" è estremamente interessante: "Pare che all'amministrazione della Marina italiana stia per aprirsi un baratro di miserie: furti sui contratti e sulle transazioni con i costruttori, bronzo dei cannoni di cattiva qualità, polvere avariata, blindaggi troppo sottili, ecc.Se si vorranno fare delle inchieste serie, si scoprirà ben altro".(5)

Si arrivò così alla mattina del 20 luglio.

"La Marina italiana aveva, su quella Austriaca, una superiorità numerica di circa il 60 per cento negli equipaggi e di circa il 30 per cento negli ufficiali.
Ma il nostro personale proveniva da marine diverse e risentiva del regionalismo ancora vivo nella nazione da poco unificata e in particolare del vecchio antagonismo fra Nord e Sud." (6)

E così in circa un'ora l'abilità del Tegetthoff ed il valore degli equipaggi consentì alla marina austro-veneta (come la chiamano ancor oggi alcuni storici austriaci) di riportare una meritata vittoria.
Le perdite furono complessivamente di 620 morti e 40 feriti, quelle austro-venete di 38 morti e 138 feriti (7).

La corazzata "Re d'Italia", speronata dall'ammiraglia Ferdinand Max, affondò in pochi minuti con la tragica perdita di oltre 400 uomini, la corvetta corazzata Palestro colpita da un proiettile incendiario esplose trascinando con se oltre 200 vittime.E quando von Tegetthoff annunciò la vittoria, gli equipaggi veneti risposero lanciando i berretti in aria e gridando: "Viva San Marco" (8).

Degno di menzione è anche il capo timoniere della nave ammiraglia “Ferdinand Max”, Vincenzo Vianello di Pellestrina, detto “Gratton”, il quale agli ordini di Tegetthoff manovrò abilmente la nave per speronare ed afforndare l’ammiraglia “Re d’Italia”, guadagnandosi la medaglia d’oro imperiale assieme a Tomaso Penso di Chioggia.

Famoso è nella tradizione il comando che Tegetthoff diede a Vianello:“ …… daghe dosso, Nino, che la ciapemo”. (9)

Alla fine, nonostante le sconfitte di Custoza e Lissa, il Veneto passò all'Italia.
E a Napoleone III, imperatore dei francesi, non resterà che dire riferendosi agli italiani:
"Ancora una sconfitta e mi chiederanno Parigi". (10)

E Giuseppe Mazzini su "Il dovere" del 24 Agosto 1866:
"E' possibile che l'Italia accetti di essere additata in Europa come la sola nazione che non sappia combattere, la sola che non possa ricevere il suo se non per beneficio d'armi straniere e concessioni umilianti dell'usurpatore nemico?

"Note :

1) A. Zorzi - La Repubblica del Leone - RUSCONI (pag. 550)

2) S. Meccoli - Viva Venezia - LONGANESI (pag. 122)

3) A. Iachino - La campagna navale di Lissa 1866 - IL SAGGIATORE (pag. 133)

4) D. Mack Smith - Storia d'Italia - LATERZA

5) Mario Costa Cardol - Và pensiero ....su Roma assopita - MURSIA (pag. 5)

6 e 7) A. Iachino - Storia Illustrata 06/1966 (pagg. 113-119)

8) Vedi anche A. Zorzi - Venezia austriaca - LATERZA (pag. 138)

9) Alberto Vedovato - Il Leone di Lissa cosa è legittimo fare - Quaderni del Lombardo-Veneto n. 48, Aprile 1999.

10) Mario Costa Cardol - Ingovernabili da Torino - MURSIA (pag. 349)

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mercoledì 27 agosto 2008

L'isola di Malu Entu si dichiara indipendente

Di Gaia Cesare

Il vento soffia. E forte. Così il «presidente» è costretto a urlare: «Solo? No, non sono solo. Eccolo, all'orizzonte c'è un motoscafo. Sono indipendentisti anche loro».
Parla da uno scoglio il «presidente»: «Ho di fronte delle rocce splendide, ritagliate dalle onde del mare.
È un incanto pensare che ci sono voluti centinaia di migliaia di anni per formarsi».
Poi la voce si alza ancora, ma stavolta è per la foga: «Come in una navicella spaziale, ognuno deve avere il proprio posto. E siccome mi sento un passeggero del pianeta terra, rivendico anch'io il posto che mi spetta».
Il posto è l'isola di Mal di Ventre, sulla carta proprietà della società «Turistica Cabras», in mano a un inglese.
Ma per il «presidente» è «Malu Entu», in sardo, come quel «vento cattivo» che soffia di continuo. Poco più di otto chilometri quadrati (813.165 metri quadrati per la precisione), costa centro-occidentale della Sardegna, a metà strada fra Sassari e Cagliari. Disabitata, dicono.
Ma Salvatore Meloni è lì. D'altra parte è alla guida della «Repubblica».
Sì, perché questo sessantacinquenne col pallino dell'indipendenza è stato eletto «capo di stato» da un centinaio di militanti in lotta per l'autodeterminazione dei popoli.
E ha formato un governo: Felice Pani agli Esteri, Alessandra Meli alle Finanze, Paolo Peddis all’Agricoltura. «Lo avevo detto e l'ho fatto: il 4 maggio ho compiuto 65 anni. I miei coetanei sono andati in pensione e io - come promesso - ho ricominciato la mia battaglia per la libertà. Per riprendermi quest'isola, tanto per cominciare. Poi faremo gli altri passi, rivendicando l'indipendenza di tutta la Sardegna».
Insomma, la battaglia del «presidente», ex autotrasportatore, una vita passata a Terralba (Oristano), comincia da questi scogli ma è approdata a New York. In una lettera inviata il 27 luglio «il presidente» chiede che «nello spirito della Carta di San Francisco» il governo di Malu Entu - «che ha deliberato in forma unilaterale l'indipendenza statuale» dell'isola, sia ammesso e difeso «da ogni atto ostile che avvenga contro il nostro popolo».
Poi l'indicazione dei limiti territoriali e infine delle caratteristiche della bandiera.
D’altra parte lui e gli altri indipendentisti si occupano dell’isolotto dal lontano 1974 e ora dicono: «Esistono gli estremi per l’usucapione».Doddore - questo il nome di battaglia - fa sul serio.
Lo dimostra il fatto che non è per nulla nuovo a iniziative del genere. La sua lotta gli è già costata una condanna a nove anni di carcere per «cospirazione contro lo Stato», la perdita di tutti i diritti politici e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Era il 1978. «Avevamo decretato l’indipendenza dell’isola e sottolineato che il Partito Sardo d’Azione, nel quale militavo, si prefiggeva l’indipendenza di tutta la Sardegna».
Per questo ha pagato. «In carcere ho fatto uno sciopero della fame che mi ha provocato non pochi problemi di salute».
Ma Doddore non demorde.
Stavolta vuole fare ancora di più. «Per questo mi sono rivolto all’Onu, perché si applichi il principio di autodeterminazione dei popoli. La Sardegna ha una civiltà millenaria, perché dovremmo stare sotto l’Italia?».
E ancora: «Dico agli italiani quello che il re degli Zulù disse agli inglesi: questa terra è di coloro che devono nascere. L’isola è nostra. Chi ce la può prendere?». Nessun astio, però, nei confronti del «continente»: «Siamo una repubblica pacifica, che vivrà di eolico, fotovoltaico. Per ora qui non c’è nulla, non c’è una casa, solo un faro. Pensiamo di cominciare costruendo case di legno».
Poi torna alle questioni politiche, il «presidente»: «Troppe le nazioni non riconosciute nel mondo. Siamo come gli indiani d’America, noi. Come il Quebec, la Groenlandia, l’Ossezia».
Si ferma un attimo, forse guarda lontano: «L’isola è piena di conigli, tartarughe, foche. Io da qui non mi muovo».
ilgiornale.it
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Di Gaia Cesare

Il vento soffia. E forte. Così il «presidente» è costretto a urlare: «Solo? No, non sono solo. Eccolo, all'orizzonte c'è un motoscafo. Sono indipendentisti anche loro».
Parla da uno scoglio il «presidente»: «Ho di fronte delle rocce splendide, ritagliate dalle onde del mare.
È un incanto pensare che ci sono voluti centinaia di migliaia di anni per formarsi».
Poi la voce si alza ancora, ma stavolta è per la foga: «Come in una navicella spaziale, ognuno deve avere il proprio posto. E siccome mi sento un passeggero del pianeta terra, rivendico anch'io il posto che mi spetta».
Il posto è l'isola di Mal di Ventre, sulla carta proprietà della società «Turistica Cabras», in mano a un inglese.
Ma per il «presidente» è «Malu Entu», in sardo, come quel «vento cattivo» che soffia di continuo. Poco più di otto chilometri quadrati (813.165 metri quadrati per la precisione), costa centro-occidentale della Sardegna, a metà strada fra Sassari e Cagliari. Disabitata, dicono.
Ma Salvatore Meloni è lì. D'altra parte è alla guida della «Repubblica».
Sì, perché questo sessantacinquenne col pallino dell'indipendenza è stato eletto «capo di stato» da un centinaio di militanti in lotta per l'autodeterminazione dei popoli.
E ha formato un governo: Felice Pani agli Esteri, Alessandra Meli alle Finanze, Paolo Peddis all’Agricoltura. «Lo avevo detto e l'ho fatto: il 4 maggio ho compiuto 65 anni. I miei coetanei sono andati in pensione e io - come promesso - ho ricominciato la mia battaglia per la libertà. Per riprendermi quest'isola, tanto per cominciare. Poi faremo gli altri passi, rivendicando l'indipendenza di tutta la Sardegna».
Insomma, la battaglia del «presidente», ex autotrasportatore, una vita passata a Terralba (Oristano), comincia da questi scogli ma è approdata a New York. In una lettera inviata il 27 luglio «il presidente» chiede che «nello spirito della Carta di San Francisco» il governo di Malu Entu - «che ha deliberato in forma unilaterale l'indipendenza statuale» dell'isola, sia ammesso e difeso «da ogni atto ostile che avvenga contro il nostro popolo».
Poi l'indicazione dei limiti territoriali e infine delle caratteristiche della bandiera.
D’altra parte lui e gli altri indipendentisti si occupano dell’isolotto dal lontano 1974 e ora dicono: «Esistono gli estremi per l’usucapione».Doddore - questo il nome di battaglia - fa sul serio.
Lo dimostra il fatto che non è per nulla nuovo a iniziative del genere. La sua lotta gli è già costata una condanna a nove anni di carcere per «cospirazione contro lo Stato», la perdita di tutti i diritti politici e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Era il 1978. «Avevamo decretato l’indipendenza dell’isola e sottolineato che il Partito Sardo d’Azione, nel quale militavo, si prefiggeva l’indipendenza di tutta la Sardegna».
Per questo ha pagato. «In carcere ho fatto uno sciopero della fame che mi ha provocato non pochi problemi di salute».
Ma Doddore non demorde.
Stavolta vuole fare ancora di più. «Per questo mi sono rivolto all’Onu, perché si applichi il principio di autodeterminazione dei popoli. La Sardegna ha una civiltà millenaria, perché dovremmo stare sotto l’Italia?».
E ancora: «Dico agli italiani quello che il re degli Zulù disse agli inglesi: questa terra è di coloro che devono nascere. L’isola è nostra. Chi ce la può prendere?». Nessun astio, però, nei confronti del «continente»: «Siamo una repubblica pacifica, che vivrà di eolico, fotovoltaico. Per ora qui non c’è nulla, non c’è una casa, solo un faro. Pensiamo di cominciare costruendo case di legno».
Poi torna alle questioni politiche, il «presidente»: «Troppe le nazioni non riconosciute nel mondo. Siamo come gli indiani d’America, noi. Come il Quebec, la Groenlandia, l’Ossezia».
Si ferma un attimo, forse guarda lontano: «L’isola è piena di conigli, tartarughe, foche. Io da qui non mi muovo».
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Pronto...Signora Gelmini...? - Quello che è bene non dire !!


Questo studio di Bankitalia dimostra ciò che i nostri abili politici dovrebbero ben sapere.......(o meglio sanno ma fingono di ignorare..)..

I problemi della scuola nelle regioni meridionali sono causati dalla pessima gestione che di questa è fatto (volutamente ?) dal potere centrale , vedasi infrastrutture fatiscenti e investimenti per la formazione ridotti all'osso.....

Però come non capire la Signora Gelmini...dare addosso al "terrone" ultimamente è di gran moda...... è di tendenza......

Inoltre tenere nell'ignoranza (e di conseguenza riuscire agevolmente a sfruttare come bassa manovalanza) le masse meridionali è un "dovere" a cui i governi italiani non mancano dal 1861....
(PdSUD ER)

Roma - Troppi insegnanti a tempo determinato, scuole fatiscenti, scarsi stimoli culturali dall’ambiente familiare: per questo al Sud un giovane su quattro lascia la scuola dopo la licenza media, con punte di oltre il 25% in Campania, Sicilia e Puglia. Un dato nettamente superiore alla media nazionale che si ferma poco sotto il 20%, con il Nord-Ovest più o meno al 18%, il Nord-Est al 15% e il centro Italia a circa il 13%.
L'allarme di Bankitalia L’allarme viene lanciato da uno studio della Banca d’Italia su "La dispersione scolastica e le competenze degli studenti" che sottolinea come mentre al Centro e al Nord la percentuale degli abbandoni precoci è in linea con la media europea, il Mezzogiorno "si caratterizza per una maggiore dispersione scolastica e una più elevata incidenza di giovani con scarse competenze".
Ed è proprio il Sud ad allontanare l’Italia dai parametri concordati nell’ambito della strategia di Lisbona.

Secondo via Nazionale, infatti, mentre il Centro e il Nord-Est hanno concrete possibilità di centrare l’obiettivo di una dispersione scolastica vicina al 10% entro i prossimi tre anni, il Sud continuerebbe comunque a registrare una media superiore al 20%.
Alfabetizzazione e dotazione scolastica Per spiegare il ritardo del Mezzogiorno Bankitalia punta il dito su due motivi principali:

i "divari del grado di alfabetizzazione della popolazione adulta" e la "dotazione scolastica locale".

Secondo lo studio, avere i genitori laureati piuttosto che con la sola licenza media "allontanerebbe di circa 10 volte la probabilità di essere in ritardo o di abbandonare gli studi".

Ma nel Mezzogiorno la situazione è critica: il 57% della popolazione tra i 35 e i 55 anni, verosimilmente i genitori dei quindicenni attuali, ha al massimo il titolo di licenza media.
Ben il 13% in più rispetto al Centro-Nord.

Ma anche sul fronte dell’edilizia scolastica il Sud è molto indietro rispetto al resto del Paese.
"Nelle regioni meridionali - si legge nel documento - le percentuali di edifici impropriamente adattati a uso scolastico e di scuole con infrastrutture e impianti igienico-sanitari scadenti sono superiori a quelle del Centro Nord".
Situazione critica al Sud Le peggiori infrastrutture, spiega Bankitalia, "possono sia influenzare negativamente gli apprendimenti degli studenti sia segnalare una minore attenzione degli enti locali nei confronti del mondo della scuola".

Per quanto riguarda gli insegnanti, infine, afferma Bankitalia, "l’efficacia del sistema scolastico non dipenderebbe dal numero dei docenti impiegati ma dalla loro composizione".
In particolare, conclude lo studio "una minore percentuale di docenti a tempo determinato contribuirebbe a ridurre il rischio" di dispersione, così come "la presenza del tempo prolungato nella media inferiore" e scuole più adeguate alla loro funzione formativa.

Fonte: Ilgiornale.it
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Questo studio di Bankitalia dimostra ciò che i nostri abili politici dovrebbero ben sapere.......(o meglio sanno ma fingono di ignorare..)..

I problemi della scuola nelle regioni meridionali sono causati dalla pessima gestione che di questa è fatto (volutamente ?) dal potere centrale , vedasi infrastrutture fatiscenti e investimenti per la formazione ridotti all'osso.....

Però come non capire la Signora Gelmini...dare addosso al "terrone" ultimamente è di gran moda...... è di tendenza......

Inoltre tenere nell'ignoranza (e di conseguenza riuscire agevolmente a sfruttare come bassa manovalanza) le masse meridionali è un "dovere" a cui i governi italiani non mancano dal 1861....
(PdSUD ER)

Roma - Troppi insegnanti a tempo determinato, scuole fatiscenti, scarsi stimoli culturali dall’ambiente familiare: per questo al Sud un giovane su quattro lascia la scuola dopo la licenza media, con punte di oltre il 25% in Campania, Sicilia e Puglia. Un dato nettamente superiore alla media nazionale che si ferma poco sotto il 20%, con il Nord-Ovest più o meno al 18%, il Nord-Est al 15% e il centro Italia a circa il 13%.
L'allarme di Bankitalia L’allarme viene lanciato da uno studio della Banca d’Italia su "La dispersione scolastica e le competenze degli studenti" che sottolinea come mentre al Centro e al Nord la percentuale degli abbandoni precoci è in linea con la media europea, il Mezzogiorno "si caratterizza per una maggiore dispersione scolastica e una più elevata incidenza di giovani con scarse competenze".
Ed è proprio il Sud ad allontanare l’Italia dai parametri concordati nell’ambito della strategia di Lisbona.

Secondo via Nazionale, infatti, mentre il Centro e il Nord-Est hanno concrete possibilità di centrare l’obiettivo di una dispersione scolastica vicina al 10% entro i prossimi tre anni, il Sud continuerebbe comunque a registrare una media superiore al 20%.
Alfabetizzazione e dotazione scolastica Per spiegare il ritardo del Mezzogiorno Bankitalia punta il dito su due motivi principali:

i "divari del grado di alfabetizzazione della popolazione adulta" e la "dotazione scolastica locale".

Secondo lo studio, avere i genitori laureati piuttosto che con la sola licenza media "allontanerebbe di circa 10 volte la probabilità di essere in ritardo o di abbandonare gli studi".

Ma nel Mezzogiorno la situazione è critica: il 57% della popolazione tra i 35 e i 55 anni, verosimilmente i genitori dei quindicenni attuali, ha al massimo il titolo di licenza media.
Ben il 13% in più rispetto al Centro-Nord.

Ma anche sul fronte dell’edilizia scolastica il Sud è molto indietro rispetto al resto del Paese.
"Nelle regioni meridionali - si legge nel documento - le percentuali di edifici impropriamente adattati a uso scolastico e di scuole con infrastrutture e impianti igienico-sanitari scadenti sono superiori a quelle del Centro Nord".
Situazione critica al Sud Le peggiori infrastrutture, spiega Bankitalia, "possono sia influenzare negativamente gli apprendimenti degli studenti sia segnalare una minore attenzione degli enti locali nei confronti del mondo della scuola".

Per quanto riguarda gli insegnanti, infine, afferma Bankitalia, "l’efficacia del sistema scolastico non dipenderebbe dal numero dei docenti impiegati ma dalla loro composizione".
In particolare, conclude lo studio "una minore percentuale di docenti a tempo determinato contribuirebbe a ridurre il rischio" di dispersione, così come "la presenza del tempo prolungato nella media inferiore" e scuole più adeguate alla loro funzione formativa.

Fonte: Ilgiornale.it

 
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