Un orrore lungo 19 anni. Gli cadde addosso nel 1961 quando era uno studente universitario ventitreenne e non lo abbandonò fino al 1979.
Diciannove anni nei campi di lavoro della Cina comunista senza una vera colpa, senza un processo, senza un’autentica condanna.
La vita di Harry Wu è ancora oggi, a 71 anni suonati, una vita segnata da quell’orrore, dal ricordo dei compagni di prigionia piegati dalla fame e dagli stenti, dalla fatica e dalla determinazione che lo aiutò a uscire dai campi di lavoro dove la Cina di Mao seppellì decine di milioni di cosiddetti «controrivoluzionari».
La maggior parte dei suoi compagni di sventura non sopravvisse. Chi ci riuscì spesso non vuole ricordare.Harry Wu ha fatto di quel ricordo la missione della sua vita.
Anche dopo la libertà, dopo la «riabilitazione», dopo la fuga negli Stati Uniti, non ha mai smesso di raccontare quei 19 anni, non ha mai smesso di pronunciare la parola «laogai».
Grazie a lui la «rieducazione attraverso il lavoro», introdotta dal maoismo cinese per spegnere qualsiasi opposizione e qualsiasi resistenza, è diventata sinonimo di lager e gulag.
Ma il cammino è ancora lungo e Harry Wu lo sa. Nonostante sia tornato in Cina, nonostante la recensione in un dettagliato elenco degli oltre mille campi di lavoro dove ancora oggi la Cina rieduca i suoi dissidenti, nonostante sia stato nuovamente arrestato, nuovamente condannato e definitivamente espulso dalla Cina, la battaglia di Harry Wu non si è mai fermata.
Dopo il laogai e i lavori forzati ha denunciato le esecuzioni e i prelievi d’organi dai condannati a morte. Solo grazie a lui molte delle nefandezze del comunismo cinese sono venute alla luce, ma la strada è ancora lunga. Soprattutto in Europa, soprattutto in un continente che in nome degli affari ha spesso dimenticato le battaglie per i diritti umani.
Ed ecco allora Laogai.
L’orrore cinese, il nuovo libro intervista pubblicato da Spirali in cui il professor Wu ci accompagna nella raccapricciante galleria di sofferenze su cui è cresciuta e si sviluppa la potenza economica cinese. Ma questa potenza, a sentire quanto racconta Harry Wu al Giornale, potrebbe avere un orizzonte limitato perché, come ci ripete il più famoso dissidente cinese,
«se a Pechino arriverà una nuova rivoluzione sarà la rivoluzione contro il comunismo».
Pechino può contare su un’economia florida, su un consenso abbastanza generalizzato, su un ferreo apparato di sicurezza e su rapporti internazionali abbastanza solidi: perché mai non dovrebbe sopravvivere?
«Perché chi comanda, il Partito, continua a professare il credo comunista e questo lo porterà a fare i conti con le proprie contraddizioni interne. Il comunismo puntava ad abolire la proprietà privata, la libertà di pensiero, di parola e di religione. Ma oggi la libertà economica diffonde anche un desiderio di libertà autentica. La gente apprezza il benessere, ma desidera la proprietà privata, vuole possedere la terra su cui vive. Ma in Cina nessuno può possedere la terra. Quel diritto spetta solo allo Stato e al Partito. La stessa cosa vale per la religione. Chi è veramente cattolico non sa più cosa farsene dei vescovi nominati da Pechino, pretende di poter ascoltare la parola dei veri vescovi ordinati dal Papa. Lentamente questo processo travolgerà anche l’economia e chi investe i propri soldi pretenderà di sottrarla al controllo dei burocrati venuti dalle fila del Partito. Il Partito diventerà l’espressione di tutto quello che i cinesi non vogliono e sarà spazzato via».
Le Olimpiadi accelereranno questo processo?
«Le Olimpiadi non contano nulla, sono transitorie, passeggere. Quando si spegneranno i riflettori si spegnerà anche l’attenzione per i diritti umani. C’è una grande questione che tutti tendete a dimenticare. I Giochi sono affascinanti, ma passeggeri ed effimeri. La negazione dei diritti umani è invece continua perché connaturata al sistema. Non basta parlarne tre mesi per eliminarla. Conoscete qualcuno veramente disposto a boicottare i Giochi in nome dei diritti umani?
Io non ne ho incontrato neppure uno».
Ma le Olimpiadi aiutano a far parlare della Cina...
«Qualsiasi cosa possiate dire, qualsiasi cosa succeda da qui alla fine dei Giochi non rappresenta un grosso problema per Pechino. Guardate il Tibet. A marzo hanno ucciso centinaia di persone e ne hanno imprigionate migliaia. Chi parla più di loro? Chi lotta per loro? Lo stesso Dalai Lama, se continueranno i colloqui con Pechino, sarà forse costretto a presenziare alle Olimpiadi».
Quali sono le violazioni dei diritti umani più plateali?
«In Cina, ci sono le esecuzioni. In Cina, le donne non sono libere di partorire. I Cina non esiste libertà di religione e di organizzazione. In Cina i mezzi di comunicazione sono interamente controllati dai comunisti e sostenuti dalle società come Yahoo, Cisco, Microsoft e Google. In Cina, se ti colleghi a Internet, devi inserire la tua carta magnetica, così la polizia scopre immediatamente che sei su Internet. La sicurezza cinese si fa dare da Yahoo o da qualsiasi altro provider le informazioni sull’indirizzo e-mail, le trasferisce ai tribunali che emettono atti d’accusa e ordini d’arresto. Ma la cosa più aberrante è forse la legge sul controllo delle nascite che toglie a donne e famiglie il diritto naturale alla procreazione. Per mettere al mondo un figlio le famiglie cinesi devono ottenere il permesso dello Stato. Per imporre questo sistema aberrante lo Stato spinge all’aborto milioni di donne e ne condanna altrettante alla sterilizzazione. Non c’è nulla di simile sulla faccia della terra».
Lei è stato il primo a denunciare i trapianti degli organi prelevati ai condannati a morte.
«La Cina, oggi, è l’unico paese al mondo che usa gli organi espiantati ai condannati a morte per i trapianti. Grazie a questa pratica la Cina è oggi il secondo paese al mondo per trapianti d’organo. Il 95 per cento degli organi proviene da prigionieri giustiziati. Di conseguenza la Cina è l’unico paese al mondo in cui il numero dei prigionieri giustiziati cresce ogni anno. E il numero delle esecuzioni resta uno dei meglio custoditi segreti di Stato».
Cosa potrà metter fine a questi orrori?
«Solo la fine del comunismo».
Gian Micalessin
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